Ali(to) di vita

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    Buona domenica, amici! <3
    Ho deciso di pubblicare nella Nostra Biblioteca la fanfiction con cui ho partecipato alla gara di scrittura “L’alba di una nuova vita”, organizzata qui sul forum poco tempo fa.
    Si tratta di una storia leggibile da tutti, nella quale ho cercato di inserire ogni informazione essenziale per capire il contesto originale di riferimento. A completare il quadro ci sono la sinossi, le note sulla pronuncia dei nomi e il mini-glossario a fondo pagina (potete consultarlo quando trovate termini strani nel testo!) :) Per qualsiasi dubbio, ovviamente, resto a disposizione del lettore che non conosce i personaggi e le dinamiche dell’opera da cui essi provengono.

    Ai fan di “Carnival Row” che posso dire? Se avete visto soltanto la prima stagione della serie, vi garantisco che non avrete difficoltà con questa fanfiction ;) Al massimo v’incuriosiranno alcune allusioni che semino qua e là nella narrazione; anche in quel caso sono più che disponibile per rispondere a qualsiasi tipo di domanda ^_^ Chi, invece, ha visto la seconda stagione, deve sapere che la mia storia segue la logica what if: prima di scriverla ho supposto che, a un certo punto, gli eventi si fossero svolti in maniera diversa da come sono andati :rolleyes: ma non è necessario che vi riveli cos’ha modificato il mio cervello, poiché la lettura non dovrebbe crearvi problemi di comprensione.
    Un caro saluto a tutti!


    Ali(to) di vita

    ~🦋~

    OPERA DI RIFERIMENTO: “Carnival Row”
    CATEGORIA: bollino giallo (per adolescenti)
    GENERE: Malinconico, Sentimentale, Fantasy
    NOTE AGGIUNTIVE: What if
    DICHIARAZIONE DI NON RESPONSABILITÀ: “Carnival Row” e i suoi personaggi non mi appartengono, sono una creazione di René Echevarria e Travis Beacham. La serie è prodotta da Amazon Studios e io non ricavo alcun profitto dalla mia fanfiction, poiché scrivo solo per amore verso i personaggi. Diciamo anche che, in questo caso specifico, vorrei render loro giustizia, visto come sono stati trattati nella seconda stagione… ma di certo non guadagno soldi facendo ciò!


    Sinossi

    Nell’immaginaria città di Burgue, in un tempo che richiama la nostra età vittoriana, la primavera tarda ad arrivare: piove di continuo e i fiori non sbocciano. Eppure questa stessa città, dopo decenni di tensione tra esseri umani e creature fatate, sta diventando la culla di un grande cambiamento… personificato nelle figure di Vignette e Philo, la fata bibliotecaria e il poliziotto che ha vissuto per tanti anni come umano.

    Cosa c’entreranno mai l’uno con l’altro due esseri apparentemente così diversi?


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    ~🦋~🦋~

    Note sulla pronuncia dei nomi


    Vignette: l’accento cade sulla prima e; la e finale è muta. Nel cognome Stonemoss l’accento cade sulla prima o, mentre la e al centro è muta.

    Philo: ph si pronuncia f, mentre la i si pronuncia ai. Nel cognome Philostrate, invece, la i resta i, ph si pronuncia sempre f e la a si pronuncia ei. Sulla i cade l’accento, la e finale è muta.
    Nel nome Rycroft la y si pronuncia ai.

    Burgue: il nome della città dove sono ambientate le vicende ha forse la pronuncia più particolare. La prima u si legge come se fosse un incrocio fra la o e la e. La g è dura come nella parola italiana “guardia”. La u e la e finale sono mute.
    Più semplice la pronuncia di Tirnanoc: si legge come si scrive e l’accento cade sulla i.

    ~🦋~🦋~




    «Pioggia» brontolò Vignette Stonemoss, mentre si chiudeva alle spalle la porta di casa. Si tolse la mantella con cappuccio, grondante d’acqua, e scrollò forte le ali, seminando una cascata di goccioline sulla soglia. «Sempre pioggia. Almeno avesse un buon odore.»

    Un tuono rimbombò alle sue spalle, cupo come un rimprovero. La fata emise un sospiro, si slacciò gli stivali fradici e s’innalzò in volo oltre l’ingresso che conduceva direttamente alla cucina.

    Al lavoro poteva permettersi di rado di volare. I suoi colleghi umani non vedevano di buon occhio la cosa; anzi, la consideravano una vanteria in piena regola, una “ostentazione inutile di abilità anormali”. Ciò non implicava che lei vi rinunciasse. Le ali erano utilissime quando i libri andavano riposti negli scaffali più alti – e persino i bibliotecari con la puzza sotto il naso erano costretti a riconoscerlo. D’altronde, se si è afflitti dagli acciacchi dell’età, che senso ha affannarsi a salire su una scala anziché delegare il proprio compito a una persona giovane e scattante?

    Poi c’era l’area della biblioteca dedicata alla cultura fatata. Uno stanzino a parte, minuscolo quanto un ripostiglio; eppure era il luogo dove Vignette si sentiva più a suo agio. Se ne curava soltanto lei e questo la rendeva felice. Nelle rare mattine soleggiate che benedicevano la grigia città di Burgue, un caldo bagliore illuminava la finestrella d’angolo, rivestiva d’oro il legno degli scaffali, scintillava sui dorsi dei volumi decorati in argento. Le ricordava la luce più limpida della sua terra natìa, vibrante di vita e portatrice di rinascita. Chissà se succedeva lo stesso anche alle fate che passavano a prendere un libro in prestito…

    Dopo aver acceso una candela per scacciare l’oscurità della cucina, Vignette trafficò con la lampada a olio fissata al muro. Questa rischiarò l’ambiente, rivelando il bianco delle pareti e il pavimento marroncino dalle sfumature color ambra. In un frullo d’ali, la fata si diresse verso uno degli armadietti della stanza, dov’era conservato un sacchetto con dentro una manciata di foglie di tè.

    Avrebbe preferito gustare la bevanda in compagnia, ma dubitava di poter contare sull’arrivo del suo coinquilino: a Rycroft Philostrate, ispettore della Gendarmeria di Burgue, non mancavano i motivi per tardare oltre l’ora di cena – figuriamoci se gli veniva facile rientrare per una tazza di tè, ancorché bevuta alle sette di sera! Del resto, capitava pure a lei di essere impegnata, al di là di qualsiasi turno in biblioteca, poiché alle riunioni del sindacato si aggiungevano gli incontri più informali con tante fate che lavoravano nelle fabbriche. In effetti, le restava poco tempo per riposarsi e doveva farne tesoro.

    In attesa del fischio familiare del bollitore, volle dare una controllata all’unica pianta ornamentale che possedeva, una delle tante varietà di ornitogallo esistenti. Si trattava di un regalo che, per quanto inaspettato, aveva subito trovato posto in casa, come a rammentarle che la primavera riusciva a farsi spazio persino a Burgue. Tuttavia…

    «Fiorirà mai quest’ornitogallo?» borbottò Vignette, con uno sguardo di disappunto alla pianta sul davanzale della finestra. Era primavera da quasi un mese, ma gli steli sottili e morbidi, che spuntavano dal vaso insieme alle foglie verdi e allungate, restavano disadorni. «Se non viene il sole, mi sa proprio di no. Forse sarebbe stato meglio darla a una fata che vuole tornare a Tirnanoc… anche se non è più partito nessuno nelle ultime settimane.»

    La maggioranza delle fate decise a rientrare in patria aveva lasciato Burgue da tempo. Chi aveva scelto altrimenti preferiva restare, per abitudine, ottime capacità di adattarsi, difficoltà a riallacciare vecchi legami o desiderio di migliorare il calderone variopinto in cui – contro ogni previsione dei benpensanti – la città si stava pian piano trasformando.

    Con un sorriso a fior di labbra e un barlume di compiacimento negli occhi cerulei, Vignette versò l’acqua fumante in una tazza e aggiunse le foglie di tè. Un giorno o l’altro sarebbe stato possibile dimostrare che una convivenza tra umani e fatati non era solo fattibile, ma addirittura positiva, a condizione che ci fosse una reale volontà d’integrazione da entrambe le parti, con conseguente rinuncia alle ambizioni imperialiste e distruttive che tanto male avevano arrecato alla terra delle fate. Il percorso era complesso, accidentato; richiedeva un’enorme dose di pazienza e tolleranza. Malgrado ciò, in meno di un decennio si erano già visti i primi frutti. Non restava che continuare a portare avanti il cambiamento.

    Tenendo il manico della tazza colma d’infuso bollente, Vignette raggiunse l’area della cucina che fungeva da soggiorno. Si accoccolò su una poltroncina color crema, le ali avvolte intorno al corpo, simili a un bozzolo azzurro chiaro venato di nero. Respirò l’aroma delicato del tè e soffiò più volte oltre il bordo sbeccato della porcellana, prima di sorseggiare la bevanda con cautela per non scottarsi la lingua. Quando ebbe finito di bere, appoggiò la nuca allo schienale imbottito della poltrona e chiuse gli occhi, la sua mente libera di oziare che vagava fra vecchi ricordi e aspirazioni future. Il sonno la catturò a tradimento, ma fu sufficiente un rumore metallico per svegliarla: circa un quarto d’ora dopo che si era addormentata, una chiave s’infilò nella serratura della porta, annunciando l’arrivo del suo compagno. Vignette si diede uno scossone e stiracchiò le ali.

    Il battente fu richiuso da un uomo con un lungo cappotto bagnato, nero quanto la bombetta che indossava e l’ombrello che aveva posato in un angolo. La fata gli andò incontro in volo.

    «Bentornato, Philo» lo salutò, abbassandosi affinché fossero alla stessa altezza. Fortuna che era più bassa di lui, così poteva mantenere una leggera distanza fra i propri piedi e il pavimento dell’ingresso, per evitare d’impregnarsi le calze d’acqua.

    «Ciao. Pensavo di sbrigarmi almeno dieci minuti fa, ma una carrozza ha rischiato un incidente e la strada è rimasta bloccata per un po’. Niente che richiedesse l’intervento della polizia, ad ogni modo» disse lui, mentre si toglieva cappello e cappotto. «E tu? Com’è stata la tua giornata di oggi?» Sfiorò l’avambraccio di Vignette e le accarezzò il dorso della mano col pollice.

    «Tutto normale, nessuna novità» rispose lei. Gli ravviò i ciuffi scuri sulla cima della testa, resi umidi e scomposti dalla pioggia filtrata attraverso la bombetta. Non le dispiaceva avere i capelli bagnati, ma trovava che a lui non donassero. «È rimasta più o meno mezza dose d’acqua per il tè, anche se ormai si sarà raffreddata» gli riferì, precedendolo fino al tavolo della cucina. «Ti va di bere qualcosa?»

    «No, grazie. Mi preparo un bagno caldo, così poi ci occupiamo della cena.»

    Quando il suo primo pensiero era un bagno, Philo era esausto a causa di una giornata movimentata. Vignette prese mentalmente nota della cosa, ma lì per lì non chiese spiegazioni.

    «Nessun problema, vai pure.»

    «Non ci vorrà molto» garantì lui. «Intanto, se vuoi, pensa a cosa potremmo mangiare stasera.»

    Così Vignette aspettò che il compagno terminasse i suoi preparativi, intenzionata ad andare da lui in un secondo momento. Non che volesse disturbarlo o mettergli fretta; sperava solo di accertarsi che stesse bene. Non si era ancora scrollato di dosso la pessima abitudine di trascurare sé stesso, malgrado gli anni recenti gli avessero insegnato a occuparsi di più delle sue necessità ed esigenze. E lei, nonostante fosse l’ultima persona che poteva permettersi di fargli la morale, stava impiegando meno tempo a imparare la medesima lezione di vita. Dopotutto, aveva alle spalle un considerevole periodo di riflessione e guarigione personale, che in parte a lui era mancato. Entrambi erano sopravvissuti a una guerra, poi a una ghettizzazione e a una rivolta sanguinosa, ma le circostanze li avevano portati a seguire percorsi divergenti prima di riunirsi e stare insieme…

    Sforzandosi di scacciare i demoni del passato, Vignette agitò le ali e si rizzò in piedi. Provò a focalizzarsi sul presente. Un paio di giorni addietro aveva messo della biancheria ad asciugare – ed era in bagno che stendeva il bucato, poiché la casa non aveva balconi né cortili. Inoltre, grazie a quel sistema, i panni evitavano di assorbire gli odori più ripugnanti della città. Le sarebbe bastata la scusa degli indumenti e degli asciugamani da raccogliere per verificare le condizioni di Philo.

    Uscì dalla cucina, s’infilò nel corridoio e svoltò a destra verso il bagno. Vedere la porta chiusa anziché semiaperta le strappò un ghigno: il solito Philo con la sua etichetta da gentiluomo! A lei non importava di essere vista mezza nuda se in casa c’erano solo loro due; al contrario, in più occasioni gli aveva proposto di fare l’amore nella vasca… col risultato d’inzupparsi le ali di acqua insaponata e spruzzargliela addosso per sbaglio!

    Entrò, volando rasoterra sulle piastrelle bianche e celesti. Lui era intento a spogliarsi: su uno sgabello di legno a tre gambe, recuperato dalla camera da letto, erano adagiati i suoi pantaloni. La vasca era stata riempita, il vapore iniziava già ad appannare lo specchio che sormontava il lavabo.

    «Sei venuta a ritirare la roba asciutta?» s’informò Philo. Al di sopra della sua testa quattro ganci – disposti a due a due sulla parete accanto alla vasca e su quella del lato opposto – sorreggevano i fili usati per stendere la biancheria. L’altezza del primo, teso in prossimità del soffitto, poteva essere raggiunta in volo o con l’aiuto di una sedia su cui salire, mentre i panni appesi al secondo, sistemato volutamente più in basso, si tiravano giù anche restando coi piedi per terra.

    Vignette assentì col capo e si sollevò di qualche centimetro. Intanto che si avvicinava alla biancheria, non riuscì a evitare di sbirciare Philo con la coda dell’occhio. Vide i suoi muscoli flettersi sotto la pelle liscia, messa sempre più a nudo dalla progressiva rimozione degli indumenti, accantonati uno dopo l’altro sullo sgabello. Appena lui s’immerse nella vasca, il suo sospiro di piacere le arrivò dritto al cuore, causandole un lieve fremito alle ali e dentro lo stomaco.

    «Vignette, hai toccato un asciugamano tre volte.» La sua voce roca era ingentilita da una traccia d’ilarità.

    «Stavo controllando che non fosse rimasto umido in alcuni punti» disse pronta la fata. Gli rivolse uno sguardo fermo, sicuro, convincente.

    «Ma la tua mano era sempre nello stesso punto» precisò lui con la medesima sicurezza.

    A Vignette sfuggì uno sbuffo. «Ancora pensate di essere al lavoro, ispettore?»

    «E voi, signorina? Dove credete di essere per sentirvi autorizzata a spiarmi quando sono in bagno?» la provocò Philo.

    Lei fu tentata di tirargli in faccia un paio di mutande, ma si trattenne e lo gettò nella cesta della biancheria pulita. Consapevole di quell’impulso contenuto a malapena, Philo ridacchiò sotto i baffi, prima di piegare i gomiti e appoggiare la schiena all’orlo della vasca. Rilasciò un altro sospiro che tradiva il suo senso di appagamento.

    «Dai, dimmi la verità: perché avevi un bisogno così impellente di fare il bagno?» esclamò Vignette, dopo aver acchiappato tre asciugamani in una volta sola. Anche questi andarono a finire nella cesta grazie a un lancio ben mirato.

    «Magari voglio rilassarmi. Cosa c‘è di strano?» replicò Philo, tenendo gli occhi chiusi.

    «Niente. È solo che ti conosco troppo bene.»

    Fu lui a sbuffare. Le sue sopracciglia scure si aggrottarono appena sopra le palpebre abbassate, ma la bocca si richiuse presto, come se non volesse più emettere suoni. Così non era, in realtà.

    «Ho dovuto inseguire un fuggiasco, ecco tutto. A un certo punto si è arrampicato su un tetto…»

    Vignette scosse il capo, contrariata, preoccupata e divertita insieme.

    «… quindi sono stato costretto ad andargli dietro. L’ho preso per miracolo, ma almeno non mi è sfuggito» concluse Philo, sintetico.

    Vignette atterrò sul pavimento e depose il resto della biancheria nella cesta. «Non hai più l’età per metterti a saltare sui tetti» ammonì. «Con la pioggia, per giunta! Mi spieghi come cazzo hai fatto a non sfracellarti?»

    Lui aprì gli occhi e si voltò a guardarla. «Non pioveva da un paio d’ore e non aveva ancora ricominciato. Mi è bastato prestare attenzione. E poi, insomma… quarantacinque anni non sono così tanti» provò a giustificarsi, tamburellando le dita sul bordo destro della vasca.

    «Sì, invece. Per un faan-troigh…» lo stuzzicò Vignette.

    «Che mi dici di un mezzo fatato?» obiettò Philo. Mentre lei gli si accostava, abbassò il braccio per offrirle un po’ di spazio.

    «Anche per lui. Niente sconti.»

    «Non vale. Solo le fate come te possono salire sui tetti a quarant’anni?»

    «Sì, perché noi siamo agili per natura, invecchiamo più lentamente e, soprattutto, non rischiamo di cadere col culo a terra o a faccia in giù alla prima scivolata.»

    Philo non reagì subito. Rimirò per qualche istante la compagna, seduta sul bordo della vasca con le gambe accavallate, le ali che scendevano con grazia lungo la schiena, piegate verso destra per non bagnarsi. Oltre a un cerchietto giallo ocra fra i corti capelli ramati, abbellito dalle tradizionali treccine del suo popolo avvolte intorno al capo, portava una camicia verde felce a maniche lunghe, aderente e priva di bottoni ai polsini, abbinata a una giacca marrone e pantaloni color sabbia – un curioso miscuglio tra l’abbigliamento maschile di Burgue e quello femminile di alcune zone della patria delle fate. Come sempre, conferiva un’impronta personale a qualsiasi attività o elemento del mondo degli umani, che si trattasse di abiti da indossare, di organizzazione delle faccende domestiche o di comportamenti da adottare sul luogo di lavoro.

    «Si direbbe che le fate siano la specie più evoluta e dotata di tutte» constatò Philo senza nascondere un sorriso, che Vignette ricambiò appieno.

    «Abbiamo anche dei difetti. Per esempio, ci piace vantarci dei nostri talenti.»

    «Non è il genere di difetto che attribuirei a te, posso assicurartelo.»

    «Davvero?» chiese Vignette, inclinando la testa verso il basso. «E quale mi attribuiresti, invece?»

    Philo non smise di sorridere. «La voglia di avere sempre ragione.»

    «Be’, in questo caso ho avuto ragione.»

    «Devo scoprire se il mio capo è disposto ad assumere un nuovo poliziotto. Magari potresti occuparti tu degli inseguimenti dei criminali. “Agente Stonemoss” suona a meraviglia.»

    Vignette scoppiò in una fragorosa risata. «Certo, come no! Una dannata sindacalista sovversiva nella Gendarmeria di Burgue… Nemmeno sotto il più progressista dei governi!»

    Philo aggrottò la fronte. «È così che ti considerano di questi tempi?»

    «Oh, anche peggio! Siamo pur sempre in una città di umani e la mentalità è lenta a cambiare. Giusto ieri ho sentito un tizio lagnarsi al mercato del pesce: “Ci mancavano le pretese del sindacato dei critch! Dove andremo a finire, poveri noi!”.»

    «Quanta grettezza. Se i fatati hanno qualcuno che rappresenta i loro interessi in Parlamento, non vedo perché mai non debbano avere un sindacato» ribatté Philo, una nota di durezza che gli inaspriva la voce. «E poi, con tutte le immigrazioni che ci sono state negli anni, è da un pezzo che Burgue non può più definirsi una città di umani.»

    Vignette si chinò su di lui. «Be’, sono contenta che non lo sia.»

    La sua barba e i suoi baffi le facevano il solletico, eppure il contatto con la lingua e le labbra era un richiamo irresistibile, malgrado l’odore occasionale di tabacco non favorisse la dolcezza dei baci. Quel giorno Philo non si era concesso una sigaretta per ore, ma Vignette non rinunciò a prenderlo in giro.

    «Puzzi di fumo» bisbigliò sulla sua bocca, dandogli un buffetto sul lato del viso.

    «Tu sai di pioggia» disse lui in un soffio, prima di abbandonarsi a un secondo bacio, tanto breve quanto appassionato.

    «Cioè di un misto d’acqua piovana, olio bruciato, carbone e cenere?» replicò lei.

    «Non sono così bravo nelle descrizioni olfattive.»

    «Non è questione di bravura» chiarì Vignette. «Noto solo la differenza con Tirnanoc: lì da me la pioggia ha un altro odore, specie in primavera. Ricordati che questa è la stagione migliore per le fate.» Picchiettò la guancia di Philo con le dita. «Adesso veniamo a noi. Vuoi un massaggio alla fine del bagno?»

    «Se ti va di farmelo, non lo rifiuto» rispose lui. «L’altra volta è stato favoloso.»

    «Allora vado a sistemare tutto. Tu finisci con calma qui.»

    «D’accordo.»

    ~🦋~🦋~


    Giunta in camera da letto, Vignette accese due delle quattro candele posate sui comodini. Sfilatasi la giacca, si rimboccò le maniche della camicia fino ai gomiti; poi lisciò le pieghe più evidenti delle lenzuola e della trapunta, approfittando dell’occasione per sprimacciare i cuscini. L’ambiente, raccolto e rassicurante, era l’ideale per qualsiasi attività confortevole; non c’erano colori intensi, poiché alle pareti chiare si abbinavano il tappeto beige e il mobilio in legno di frassino.

    «Eccomi» dichiarò Philo una decina di minuti dopo. Entrò nella stanza a passo misurato, con indosso la biancheria intima. La fiamma delle candele mise in risalto la tonalità ambrata della sua carnagione.

    Vignette lo invitò a sedersi sul materasso matrimoniale, con le gambe distese e le spalle rivolte a lei. Era abituata alla vista di quel corpo solido e ben proporzionato, che conosceva ormai nei dettagli. Eppure, ogni volta che lui si spogliava – del tutto o per metà – in sua presenza, le era impossibile non tornare con la memoria al loro primo bacio. Con quanta disinvoltura si erano donati l’un l’altro! E dire che l’amore, all’epoca, non li aveva ancora messi alla prova… Si erano scoperti attratti e avevano agito di conseguenza, nulla di più. Philo non si era arrischiato a confessarle di essere un mezzosangue, la cui esistenza, fin dalla nascita, era stata segnata dall’orribile privazione delle ali.

    S’inginocchiò dietro di lui. Le cicatrici, eterno promemoria di quel dolore lontano, erano impresse sulla sua schiena: due tagli gemelli di dimensioni ridotte, lievemente arcuati, nella zona delle scapole. La sua perdita le straziava il cuore, ma lei non si era mai ritratta con disgusto alla vista di quelle ferite. Le accettava come parte di lui, non meno di altre sue caratteristiche fisiche – dal naso un po’ schiacciato ai fili grigi che gli spuntavano fra i capelli bruni. Del resto, l’aveva conosciuto e amato già da prima che le svelasse il segreto della sua vera natura.

    «Sei pronto?» gli domandò. Le sue membra erano calde per via del bagno: la condizione ideale in mancanza di oli da massaggio.

    «Sì, procedi pure.»

    Lei posò entrambe le mani sulle sue spalle, che massaggiò con tocchi lenti, fino a raggiungere il retro del collo. Con delicatezza premette i pollici sui lati della colonna vertebrale.

    «Parlami della primavera a Tirnanoc» disse Philo d’un tratto.

    Vignette si bloccò, colta alla sprovvista. «Cosa… Cos’è che vorresti sapere?»

    «Com’è la pioggia, che aspetto hanno i paesaggi… Tutto quello che ti va di condividere con me.»

    «Oh. Bene.» Lei fece una rapida pausa, intanto che riprendeva il massaggio. «Cerca d’immaginare una radura con alberi di vario tipo» esordì. «I rami hanno foglie verde sgargiante di ogni forma e dimensione. In basso l’erba è foltissima, tanto che le fate non provano nemmeno a camminare: volano e basta. Quando sbattono le ali con forza per accelerare, il loro tipico rumore ronzante si mescola a quello degli insetti.» Un’altra pausa veloce. «Sdràiati, per favore. Arriva il bello.»

    Philo ubbidì in silenzio. Vignette, alzatasi in piedi, gli diede modo di sistemarsi a pancia in giù, con le braccia lungo i fianchi e la fronte appoggiata al cuscino; poi continuò il suo discorso: «Le fioriture sono numerose, sia fra gli arbusti, sia in mezzo ai rami. È un tripudio di colori.» Cominciò a frizionargli la pelle, dalla parte inferiore della schiena fino alle spalle, con particolare cautela nell’area sensibile delle cicatrici. «Iniziano le primule, coi loro petali giallo chiaro, e in alto i mandorli, che hanno fiori bianchi e rosati. Subito dopo i ranuncoli e i narcisi, anch’essi gialli, e le margherite. Nel frattempo, arriva il turno degli alberi di ciliegio e di magnolia, che aggiungono ulteriori tonalità di rosa coi loro fiori meravigliosi. Non mancano neppure i biancospini.»

    «Sembra quasi un paradiso.» La risposta di Philo suonò attutita a causa del materasso, ma Vignette ebbe l’impressione – del tutto corretta – che lui stesse sorridendo. Se il bagno aveva alleviato la sua stanchezza, il massaggio gli donava una piacevole sensazione di rilassamento, prossima a rimpiazzare i residui di tensione e rigidità nei suoi arti affaticati. Inoltre, era un toccasana ascoltare i racconti di una voce amata, in grado di evocare visioni remote e incantevoli.

    «È una radura non molto lontana da quella che è stata la casa dei miei genitori» disse lei. «Ci andavo spesso dopo la scuola, nelle giornate di primavera, anche se non m’interessava raccogliere fiori.»

    «E preferivi, invece…?» la sollecitò Philo.

    «Ascoltare la natura. Il canto degli usignoli, il calpestio degli animali selvatici fra gli arbusti e i cespugli, il fruscio del vento. E poi guardavo i colori: luminosi e brillanti alla luce splendente del sole, più freddi e scuri sotto la pioggia. Quella pioggia che sapeva di muschio, fiori bagnati ed erba fresca, non di carbone e fumo di ciminiera.» Vignette inspirò a fondo e le parve di avvertire una traccia dei profumi della sua terra: un soffio di primavera, un alito vitale capace d’insinuarsi nella bruma smorta di un inverno prolungato.

    «Ti vedo» asserì lui con semplicità.

    «Cosa?» Non era sicura di aver sentito bene.

    «Vedo com’eri da ragazza. Riesco a figurarmi il tuo aspetto.»

    «Davvero?»

    «Sì.»

    Vignette cambiò tecnica e le sue mani si spostarono verso il fianco sinistro di Philo, dove applicarono una moderata pressione, compiendo brevi movimenti circolari. «Descrivimi.»

    «Sei su un albero. Forse un biancospino: i rami spinosi non ti spaventano di certo. Hai i capelli un po’ meno corti di adesso e ti manca la treccia del passaggio alla maturità, perché sei adolescente… Bassina, minuta, ma parecchio energica.»

    La fata non trattenne un risolino. Philo proseguì, imperturbabile: «Ti piace arrampicarti quasi quanto ami volare. Sotto le fronde i tuoi occhi hanno una sfumatura verde, come se il colore delle foglie si riflettesse in essi. Li tieni chiusi mentre ascolti il cinguettio degli uccelli, col viso rivolto verso l’alto… e li spalanchi quando ti cade una goccia sul naso.»

    «Pioggia?» dedusse Vignette. Eseguì le stesse manovre nella zona della scapola sinistra, attenta a diminuire la pressione.

    «Sì» confermò Philo. «Ti annoi a rientrare a casa dai tuoi genitori e non t’importa di bagnarti, perciò rimani sull’albero. Con le ali crei una specie di tendina per poterti riparare e aspetti che torni il sereno.»

    «Che succede dopo?»

    «La pioggia viene giù a piccole gocce. Non è un acquazzone violento: le nuvole si disperdono in fretta e subito ricompare il sole.»

    «Insomma, è solo una botta d’acqua» commentò Vignette. «Non un vero temporale primaverile.»

    «Già. Una rinfrescatina alla terra, diciamo.»

    La fata posizionò le mani a destra della colonna vertebrale del compagno. «Fai dei respiri lenti e profondi» lo istruì, mentre ripeteva i movimenti circolari effettuati in precedenza. «Aiuta la distensione.»

    Lui acconsentì senza esitare. «Ci vorrà un po’ perché l’acqua si asciughi» soggiunse. «Nel frattempo, i raggi del sole illuminano la radura, compreso il tuo albero. I resti di pioggia brillano sulle tue ali e sembrano gocce di rugiada. Qualcuno comporrebbe volentieri una poesia su di te.»

    «E quale sarebbe il titolo?» s’incuriosì Vignette. «“La fata sul biancospino”, magari?»

    «Non lo so. Dovrei pensarci.»

    «Allora saresti tu l’autore della poesia.»

    «Forse» ammise Philo.

    Lei gli sfiorò il collo con le labbra. «Sarebbe stato bello incontrarci all’epoca.»

    «Sì, anch’io una volta ho detto qualcosa del genere. Ma il passato non si può cambiare, lo sai.»

    «Potresti comunque vedere la fioritura degli alberi. Dovremmo fare un viaggio insieme a Tirnanoc, prima o poi. Ti mostrerei volentieri i luoghi della mia infanzia, anche se molti non sono più gli stessi per colpa della guerra.»

    «Mi piacerebbe. Chissà quando sarà possibile.»

    «In teoria anche adesso. Se ci fosse già una nave che può portarci lì…» fantasticò Vignette. I suoi massaggi divennero lievi colpi ripetuti per l’intera lunghezza della schiena, simili a una serie di percussioni, il cui scopo era la stimolazione dei tessuti muscolari.

    Philo trasse altri due lenti respiri. «Ti manca Tirnanoc?»

    «Ogni tanto sì. Molto.»

    «Quindi vuoi tornarci.»

    «Non senza di te» specificò Vignette. «E solo in visita. Non rimarrei lì. Te l’avrò ripetuto mille volte, in ogni lingua comprensibile agli umani… o ai mezzi fatati.»

    «Non è facile per me capire» si difese lui. «Mi sto sforzando. Se avessi il legame che hai tu con la tua patria, dubito che riuscirei a rinunciarvi.»

    Vignette adagiò il palmi aperti sulle sue cicatrici. La luce soffusa delle candele le ricordò quella di un paio di torce, più vivida ma altrettanto dorata. Un nodo le strinse la gola: erano trascorsi circa quindici anni dalla sera in cui, nell’antica biblioteca sacra fra le montagne, lui le aveva confidato la verità su sé stesso. «Non ho paura di perdere quel legame, Philo» sussurrò Vignette. Il cuore le doleva per la compassione. «È un pezzo di me, non lo lascerò mai andare. Per essere in pace mi basta sapere che Tirnanoc è in buona parte risanata, anche grazie al mio contributo. Posso essere felice ovunque senza rinnegare la mia provenienza, l’amore per le mie origini.» Ricominciò la serie di colpetti metodici e assunse un cipiglio ostinato. «Sono una donna libera. Lotterò affinché questa città mi accetti come tale» sostenne, risoluta. «E un giorno, che sia fra trenta o quarant’anni, il mio popolo avrà qui a Burgue la stessa dignità che viene riconosciuta agli esseri umani.»

    Calò il silenzio. Philo non riusciva a esprimersi, diviso fra l’ammirazione per lei e i dubbi sul loro avvenire, che di tanto in tanto riaffioravano nella sua testa con l’aggressività di un tarlo implacabile. Ricongiungersi era stata un’impresa e le sue insicurezze – mai scomparse – lo portavano a temere l’ennesimo distacco: e se Vignette si fosse stancata di rimanere a Burgue con lui? Se la vita in mezzo agli umani ne avesse logorato lo spirito, la vivacità, l’energia? Lei lo aveva voluto come compagno, ma Philo non escludeva che se ne pentisse…

    «Tu sei convinto di non avere radici» disse Vignette, distogliendolo dalle sue angosciose riflessioni, «perché sei cresciuto in orfanotrofio e sei figlio di un umano e di una fata. Eppure c’è qualcosa che potrebbe darti un grande senso di appartenenza, un’immagine di chi sei davvero. C’è sempre stato, in realtà.»

    «Cos’è?» Philo parlò così piano che il contatto stretto col materasso rischiò di soffocare la sua domanda.

    «Il fatto che ti metti spontaneamente nei panni degli altri. Non importa quanto siano diversi da te per cultura, identità o convinzioni. A seconda dei casi, riesci a essere vicino a tutti: fatati, umani, mezzosangue. È un dono raro.»

    Lui deglutì. «Vignette, io non…»

    «È nella tua capacità di riconoscerti nello sguardo dell’altro che scopri te stesso. La tua casa non è un posto materiale: la trovi nelle persone che aiuti… e in quelle che ti amano. Sono loro a dare significato alla tua esistenza, a farti sentire radicato in qualcosa. E questa città, che ti ha tolto così tanto…» La fata si soffermò di nuovo sulle vecchie ferite di Philo, tracciandone il contorno con le dita, «ti ha reso l’uomo che sei e può diventare un luogo di riscatto e di speranza, per tutti i mezzosangue e i fatati che ci vivranno in futuro. Grazie a te, a me e a chiunque altro voglia seguire i princìpi della giustizia.»

    «Non è che abbia ottenuto risultati eccezionali» bofonchiò lui. «Per anni ho cercato perlopiù di tirare avanti, ossessionato dall’idea di nascondere la mia metà fatata. Non c’è molto di cui andare orgogliosi: avrei potuto fare di meglio.»

    «Forse devi solo imparare a vederti nello stesso modo in cui ti vedo io» lo esortò Vignette con gentile fermezza. «Sei sempre stato un agente di cambiamento. Non hai mai fatto distinzioni tra umani e fatati, no? Men che meno quando potevi dare una mano a qualcuno. Gli errori che hai commesso non cancellano le tue buone azioni. E il tuo modo di pensare, la tua stessa natura… rappresentano quello che Burgue, se gli dèi lo vorranno, potrebbe diventare un domani.»

    Benché il massaggio non prevedesse spostamenti da parte sua, Philo tirò su le braccia per puntellarsi sui gomiti. «Intendi… l’unione di cose diverse?» Il suo tono era ancora sommesso.

    «Esatto. L’armonia fra le differenze che s’incontrano senza cancellarsi a vicenda. Anche se non è facile che succeda, anche se il conflitto è dietro l’angolo, ciò non significa che la convivenza sia impossibile. E ora abbassa la testa, perché non avevo mica finito con te! Non avresti dovuto muoverti.»

    Philo non ne aveva alcuna intenzione: si alzò a sedere e urtò Vignette con la gamba, nella fretta di attirarla a sé. Condivisero un bacio carico di ardore, dietro il quale lei percepì la sua tenerezza e la sua gratitudine. I loro corpi intrecciati aderirono con naturalezza, come a volersi fondere l’uno nell’altro.

    Vignette si sentì sciogliere fra le braccia di Philo e un calore benefico le penetrò nelle ossa, oltre ogni strato di abiti e pelle, simile alla luce del sole che, assorbita dalle piante, infonde loro l’alito della vita. Mentre le sue labbra, aiutate dall’azione incalzante della lingua di entrambi, si muovevano seducenti su quelle di lui, le ali si dispiegarono per cingergli la parte superiore del corpo. Le punte bordate di nero gli sfiorarono la schiena.

    «Ti amo» mormorò Philo.

    Vignette si sporse in avanti per un altro bacio. «Lo so. Ti amo anch’io.»

    «Andremo a visitare Tirnanoc» disse poi lui. «Non appena riusciremo a liberarci un po’ dai nostri impegni. Te lo prometto.»

    «Magari già l’anno prossimo. Che te ne pare?»

    «Lo spero. In primavera, è chiaro.»

    «M’immagino la scena: io che svolazzo di qua e di là, tu che stai seduto su una roccia lì vicino, mastichi un filo d’erba e ti guardi intorno, rapito dalla bellezza che ti circonda.»

    «Guardo il paesaggio? O te?» chiese Philo, malizioso. Nelle sue iridi scure, di solito ombreggiate dalle preoccupazioni giornaliere o dal fardello del suo passato, brillavano sollievo e felicità.

    «Tutt’e due.» Vignette ammiccò. «Ma ti viene il sole in faccia e devi stringere gli occhi contro l’intensità della luce. Si nota ogni piccola ruga che hai qui… e qui.» Passò la punta del dito su entrambi i lati delle sue palpebre inferiori, facendogli spuntare un sorriso divertito. «Ma sei felice e sereno. Ti senti a casa.»

    «Come sempre quando sono con te.»

    Si scambiarono un altro bacio. Philo le afferrò la vita e si abbandonò sopra il materasso, finché non fu sdraiato supino, con lei ancorata al suo petto muscoloso. Le loro bocche, separate dall’inevitabile bisogno d’immettere aria nei polmoni, si unirono ancora una volta. Vignette aveva una mezza idea di sbarazzarsi della camicia… ma non ebbe il tempo di slacciare un bottone che lo stomaco le brontolò per la fame, con il ringhio di un animale vorace.

    Philo sgranò gli occhi e rise. «Vedo che qualcuno vuole mangiare.»

    «Forse è meglio se andiamo a preparare la cena» riconobbe la fata con un moto di rimpianto.

    Lui le accarezzò le ali. «Grazie per il massaggio.»

    «Avrei dovuto continuare, ma… non importa, è stato meglio di niente.»

    «Sì, scommetto che stanotte dormirò benissimo.»

    Vignette strofinò la punta del naso su quello del compagno. «Dormire? Vorresti fare solo quello? Non penso» insinuò, ammaliante e sensuale.

    Due mani salde le strinsero i fianchi. «Non ho stabilito alcun programma» disse Philo. Nel suo sguardo permaneva quel barlume di spensieratezza così inconsueto per lui. «La vita può essere imprevedibile.»

    «Come siamo diplomatici stasera.»

    «Be’, il mio periodo di carriera politica sarà servito a qualcosa» scherzò lui. «Ora sbrighiamoci, o il tuo stomaco griderà vendetta.» Diede un colpetto affettuoso sulla schiena di Vignette e attese che lei si muovesse. La contemplò mentre allargava le ali per tirarsi su, mai sazio di guardarla sollevarsi in aria. Era una gioia vedere che in casa si sentiva tanto a suo agio da volare ovunque a piacimento… Al di fuori non smetteva di essere sottoposta ai limiti di una società che faticava ad accettare il diverso, malgrado i considerevoli passi avanti degli ultimi anni. Che fosse lei la prima a credere in un futuro migliore, per sé stessa e per tutti i fatati, era una straordinaria fonte di speranza.

    «Forse ho trovato un titolo per la poesia» le rivelò Philo, lasciando scivolare le gambe oltre il bordo del materasso.

    Vignette planò fino alla soglia della stanza. «Sì? Quale?»

    «“Luce”.»

    Lei si voltò nella sua direzione, le lunghe sopracciglia inarcate per la sorpresa. «È piuttosto… essenziale.»

    «Contiene tutto quel che c’è da sapere» sottolineò Philo. «I versi parlerebbero della luce di Tirnanoc, dei colori della radura della tua infanzia, che sono – come avevi detto? – luminosi sotto il sole e più freddi sotto la pioggia. E in mezzo ci saresti tu. Con il tuo spirito libero, il tuo amore per la natura e le tue ali lucenti, che sono la tua vita.»

    «Sembra perfetto. Ma, se vuoi il mio parere, manca un elemento.»

    Lui aprì l’armadio per cercare una camicia, celando la propria curiosità dietro quell’azione banale.

    «Si tratta di un ex soldato che adora la letteratura» spiegò Vignette. «È seduto in un angolo con un libro in mano, i suoi occhi vanno dal panorama alla pagina e viceversa. È riservato, eppure il suo spirito d’osservazione è sempre desto. Ha perso una parte di sé quand’era piccolissimo, ma c’è una luce anche in lui, nascosta dietro il suo atteggiamento ritirato.» Camminò verso Philo, senza mai distogliere lo sguardo dal suo viso. «Nutre una forte ammirazione per coloro che possono volare, poiché è stato privato di questo dono. All’inizio era convinto che non avrebbe mai trovato il suo posto nel mondo e la sua vera libertà. Le circostanze della vita gli hanno dimostrato che sbagliava… e che non ha bisogno delle ali per essere degno di amore.»

    Le braccia di Philo si avvolsero intorno al corpo di Vignette. La sua espressione divenne seria, quasi grave. «Ciò significa che siamo più in là nel tempo. La fata che si arrampica sugli alberi non è un’estranea per il soldato: si sono già incontrati, quando lui serviva nell’esercito di Burgue e aveva il grado di sergente.»

    Lei premette la guancia sul suo petto. «Incontrati. Amati.» Fu scossa da un tremito involontario. «Perduti. Ritrovati.»

    Philo le baciò i capelli. «Due volte. Faranno di tutto affinché non ce ne sia una terza.»

    «Be’, mi sembra che siano sulla buona strada. Vivono insieme, mangiano insieme, dormono insieme. Si augurano perfino che la loro pianta di ornitogallo fiorisca nella piovosa città di Burgue.»

    «L’anno scorso aveva i fiori. È questione di pazienza… e di fortuna. Forse domani ci sarà il sole e aiuterà un po’ la crescita.»

    «Se non domani, allora dopodomani» disse Vignette. «Almeno lo spero.» Sollevò il capo e accennò alla porta della stanza. «Andiamo?»

    «Sì.»

    Entrarono in cucina di lì a poco. Preparata e consumata una cena veloce, tornarono a ritirarsi in camera da letto, per leggere qualche pagina dell’ultimo romanzo di avventura acquistato da Philo. Senza accorgersene si addormentarono spalla contro spalla, per poi svegliarsi nel giro di un paio d’ore, col sottofondo della pioggia che tamburellava sui vetri delle finestre. Fecero l’amore prima di cedere al sonno, le ali spiegate di Vignette che sfavillavano nel buio della stanza, simili a una rete intessuta di luccicanti fili azzurri e argentati. Al mattino diede loro il benvenuto un timido raggio di sole, che accompagnò i consueti preparativi per l’inizio della giornata.

    Gli amanti si salutarono sulla porta, come d’abitudine. Rincasarono tardi, alle otto passate, perché Vignette aveva avuto una riunione sindacale e Philo vari imprevisti sul lavoro. Non venne in mente a nessuno dei due di controllare l’ornitogallo.

    Fu soltanto la sera seguente che lei si accostò al davanzale della cucina. Le cadde l’occhio sulla pianta e le sue labbra si piegarono all’insù, mentre lo sguardo riluceva di soddisfazione: sopra uno stelo era spuntato un minuscolo fiore, i cui vellutati petali bianchi, ancora chiusi, aspettavano di aprirsi con l’avvento di un altro giorno di primavera.


    fine~🦋




    Mini-glossario


    faan-troigh: equivalente scherzoso/non offensivo di “umano”. Si legge come si scrive, con l’h finale aspirata.

    critch: termine dispregiativo per indicare i fatati. La t è muta, ch si legge come nella parola inglese “church”.

    treccia del passaggio alla maturità. Nella cultura delle fate le trecce che si portano fra i capelli hanno dei significati particolari. Poiché Vignette, prima di conoscere Philo, ne ha una a cui è appeso un ciondolo che costituisce un pegno d’amore (in seguito donato proprio a lui), ho immaginato che la treccia in questione fosse un simbolo del passaggio dall’adolescenza all’età adulta. (Come dire? Ci s’innamora sul serio solo quando si diventa grandi :lol: )
     
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