Niente più sofferenza

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    Salve, amici!
    Oggi mi è parsa la giornata ideale per iniziare a pubblicare una nuova fanfiction *^^*
    L’ho scritta tra la fine dell’anno scorso e l’inizio di quest’anno, ma sulle prime non pensavo potesse interessare a chi non conosce l’opera originale, ovvero la serie noir-fantasy “Carnival Row”. I fatti mi hanno smentita, perciò ho deciso di condividere questa storia qui su ESTEL, nella speranza che qualcuno di voi la legga.

    Vi avviso, la fanfiction è un po’ particolare. Più che una vera e propria storia, è una sorta di “studio del personaggio”: seguendo quasi pedissequamente la trama della serie, ho cercato di delineare un ritratto del suo protagonista maschile. Detta così immagino che sembri un po’ una noia, ma spero che non vogliate fermarvi alle apparenze :) Vi assicuro che le scene dinamiche non mancheranno!
    Ho scelto, inoltre, più di dieci narratrici differenti. Undici, per la precisione… e l’unica cosa che hanno in comune è che sono tutte donne :D Per la maggior parte si tratta di personaggi femminili esistenti nella serie, ma ne ho inseriti un paio inventati da me. Ad ogni modo, riuscirete a conoscerli tutti, se la curiosità e l’interesse vi sosterranno fino alla fine della fanfiction (cosa che mi auguro!) ;)

    Vi anticipo che in futuro saranno presenti contenuti forti, vista la natura dell’opera originale. Spero che il bollino arancione sia sufficiente come categoria… Per il momento, comunque, vi lascio solo il prologo, preceduto da una piccola introduzione per “orientarvi”.
    A fine post troverete anche l’indice; vi consiglio di consultare le note sulla pronuncia dei nomi e tenerle sempre d’occhio. Proprio qui sotto, invece, ho inserito la canzone che mi ha ispirato il titolo della storia
    <3

    Buona lettura!



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    OPERA DI RIFERIMENTO: “Carnival Row”
    CATEGORIA: bollino arancione (per adolescenti e adulti, presenza di tematiche forti)
    GENERE: Fantasy, Drammatico, Introspettivo con elementi polizieschi e noir
    NOTE AGGIUNTIVE: Canon-Fic
    DICHIARAZIONE DI NON RESPONSABILITÀ: “Carnival Row” e i suoi personaggi non mi appartengono, sono una creazione di René Echevarria e Travis Beacham. La serie è prodotta da Amazon Studios e io non ricavo alcun profitto da questa fanfiction, poiché scrivo per amore verso i personaggi e desiderio di condividere gratuitamente le mie idee.


    ~*~*~*~

    Breve Introduzione

    Siamo in un’epoca immaginaria, molto simile alla nostra età vittoriana, in cui non esistono soltanto gli esseri umani, ma anche le creature fatate – che però, al contrario di quel che si potrebbe pensare, non praticano la magia né possiedono poteri particolari.

    Le creature fatate – o, più semplicemente, i fatati – differiscono dagli umani per usanze, credenze e caratteristiche fisiche (ad esempio, i fauni hanno corna e zoccoli, mentre le fate hanno le ali e possono volare). Queste differenze, invece di essere rispettate e valorizzate, finiscono purtroppo per essere causa di incomprensioni e conflitti.


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    Benché nella città di Burgue sembri esserci una convivenza abbastanza pacifica tra umani e fatati, questi ultimi in realtà vengono considerati degli stranieri, o addirittura degli intrusi. La maggior parte di loro si guadagna da vivere svolgendo lavori umili che gli umani tendono a non fare; tuttavia, ci sono anche fate che, in mancanza di un’occupazione, si prostituiscono o delinquono. Dunque la città non è affatto un posto tranquillo, e la convivenza fra le razze non è così pacifica…

    ~*~*~*~



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    «Signora Aisling» mormorò il dottor Morange dopo che mi ebbe visitata, «purtroppo dobbiamo prendere in considerazione tutte le eventualità.»

    Gli restituii uno sguardo serio. «Quali sarebbero?»

    Mentre lui cercava le parole giuste, probabilmente per non turbarmi, ripensai a tutto ciò che era accaduto in quegli ultimi mesi. Absalom non aveva voluto incontrarmi e non potevo dire di esserne rimasta sorpresa, ma ero comunque delusa, pur sospettando che il suo orribile padre avesse qualcosa a che vedere con la faccenda. A Villa Spurnrose ero stata accolta in maniera cordiale, poiché il padrone di casa era una brava persona e non mi aveva mai fatta sentire giudicata; tuttavia, ero ben consapevole che non sarei potuta restare lì in eterno. Non smettevo di interrogarmi sul futuro – mio e soprattutto del bambino che portavo in grembo. Le tristi storie che avevo udito sul conto dei mezzosangue mi tornavano alla memoria più spesso di quanto volessi, malgrado mi fossi sforzata sin dall’inizio di dimenticarle.

    Mi era occorso un po’ di tempo per affezionarmi a quel minuscolo essere dentro di me, ma eravamo legati più che mai dopo tanti mesi di gravidanza: ero certa che conoscesse la mia voce, come io conoscevo i suoi movimenti vigorosi. Era un piccolo uragano vivace che si agitava nel rifugio sicuro della mia pancia, già animato dall’impazienza di uscire e vedere il mondo. Nonostante la scoperta di essere incinta mi avesse disorientata e spaventata, desideravo garantire a qualsiasi costo benessere e felicità al nascituro. Potevo contare sull’aiuto del dottor Morange, che era un amico del signor Spurnrose e, per quanto ne sapevo, svolgeva il proprio lavoro con coscienziosità; ero convinta, però, che per lui “adozione” equivalesse a “orfanotrofio”, cosa che non mi procurava molta gioia.

    «Quali sarebbero le eventualità?» lo sollecitai, vedendo che ancora non mi rispondeva.

    Lui si schiarì la gola e si lisciò i baffetti. «Voi date per scontato che questo bambino sia sano. In realtà non potete saperlo. Avere determinate certezze è impossibile durante una gravidanza normale, immaginatevi quando… be’…»

    «… quando una fata è incinta di un umano?» completai.

    Il dottore assentì, una scintilla di nervosismo nello sguardo. «Il bambino potrebbe avere un ritardo mentale, oppure una grave malformazione» disse. «Mi spiace, ma dubito che sarà facile trovare una famiglia che lo adotti. L’orfanotrofio, invece, sarebbe una garanzia, tranne in caso…» Fece una pausa e trasse un respiro profondo prima di continuare: «Tranne in caso vostro figlio abbia le ali.»

    Appoggiai una mano sul mio ventre gonfio. Uno dei miei primi pensieri, quando ero venuta a conoscenza del mio stato, aveva riguardato la capacità del bambino di volare. Un paio d’ali significava maggiori possibilità di lasciare Burgue, di sfuggire a un’esistenza grigia e limitante. Tuttavia, dove avrebbe potuto rifugiarsi chi le possedeva? No, che mi piacesse o meno, Burgue era destinato a diventare la casa di mio figlio o di mia figlia… ma chi sarebbe stato disposto ad accogliere a braccia aperte la progenie di una fata? La gente del luogo era troppo diffidente nei confronti del mio popolo, quando non ostile: individui come il signor Spurnrose erano una rarità – e perfino lui non si sarebbe spinto così in là da adottare un neonato con sangue di fatato, specie considerando che era ancora scapolo. Lo stesso dottor Morange aveva appena messo in chiaro che un bambino con le ali non sarebbe stato ben accetto nemmeno all’orfanotrofio.

    «Perciò non c’è spazio per piccoli fatati in difficoltà alla Luce del Martire?» Il mio tono non era d’accusa, eppure l’espressione del dottore si fece sempre più ombrosa. «Credevo che la vostra religione insegnasse il perdono e la carità. Vi prego di scusarmi se suono scortese o inopportuna, ma…»

    «No, avete ragione» disse lui. «Solo, cercate di capire. Il signor Finch è un uomo retto e compassionevole, nessuno potrebbe sostenere il contrario… e la maggior parte delle persone che lavora per lui non è da meno. Purtroppo, signora Aisling, qui a Burgue i fatati sono e restano degli stranieri. Un bambino della vostra specie non verrà mai considerato uguale a quelli della mia: sarà per sempre diverso.»

    Sospirai, intrecciando le mani in grembo. «Conosco bene Costin Finch, non dovete provare a convincermi della sua onestà. Cosa mi consigliate di fare, dunque?»

    Il dottore sbatté le palpebre, sorpreso. «Non avevo idea che foste in buoni rapporti con il direttore dell’orfanotrofio. È un’ottima notizia. Sono certo che acconsentirà a riservare un posto al vostro bambino.»

    «Ci siamo incontrati alcuni anni fa, prima che lui prendesse i voti» spiegai. «Gli piacevano le mie canzoni, veniva spesso ad assistere ai miei spettacoli. È sempre stato sensibile e amichevole.»

    «Avrà cura di vostro figlio, anche se dovesse essere malato o deforme» replicò il dottor Morange. «L’importante è che il bambino sia abbastanza forte da sopravvivere e che possa essere scambiato per un umano, senza che la sua natura di mezzosangue venga riconosciuta. Voi non avete antenati fauni o qualcosa del genere, vero?»

    Aggrottai la fronte. «No.»

    «Allora non nascerà con le corna, perlomeno.»

    «E le ali?» obiettai. «Non è possibile essere scambiati per umani quando si hanno le ali.»

    Il dottore abbassò gli occhi per un attimo. «Non se queste vengono rimosse» bisbigliò, quasi stesse parlando al pavimento.

    Con un rantolo, mi strinsi lo stomaco. Lo afferrai con entrambe le mani, come facevo sempre nei momenti in cui i calci del bambino erano più insistenti, malgrado non avvertissi il minimo movimento dentro di me. Ero così sconvolta da non riuscire a parlare… Ali rimosse? Un esserino indifeso, la cui unica colpa era stata quella di venir concepito nel grembo di una fata che abitava a Burgue, mutilato per tutta la vita? Privato di una parte fondamentale di sé? No, il dottor Morange non poteva credere davvero a ciò che aveva detto.

    «Signora Aisling, vi sentite bene?» mi chiese, preoccupato dalla mia reazione.

    «Non potete parlare sul serio, dottore» sussurrai. Mi si era formato un nodo in gola e le mie ali tremavano per l’agitazione. «Sto bene, ma non ripetete più quella mostruosità, ve ne prego. Il mio cuore non lo sopporterebbe.»

    Lui si passò una mano sul volto. «Comprendo il vostro sgomento. Non mi sarei mai azzardato a proporvi un’alternativa del genere, se non fosse stata necessaria.»

    «Non lo è!» Non amando discutere, alzavo di rado la voce, ma stavolta mi era impossibile contenermi. «In nessun caso potrà essere ritenuto accettabile mutilare un neonato! Pensate che sarei capace di sottoporre il mio bambino a una tortura simile?» Serrai le braccia intorno allo stomaco in un gesto protettivo.

    Il dottore mi guardò, mesto e impietosito. «Sono addolorato per voi. Se riflettete, tuttavia, questo potrebbe rivelarsi l’unico modo per aiutare vostro figlio a sopravvivere. Qui è già difficile essere un fatato, figuriamoci un mezzosangue.»

    Scossi la testa, mordendomi il labbro. Sapevo che esistevano alcuni fatati abbastanza integrati a Burgue e avevo ipotizzato di rivolgermi a loro, ma il fatto che non avessero molti soldi era poco incoraggiante. Potevo pretendere che sfamassero una bocca in più senza avere una situazione economica stabile e florida? Ovviamente no. La mia sola speranza era che il bambino nascesse privo di ali – era pur sempre figlio di Absalom, oltre che mio – e venisse accolto fra gli umani. Non c’era altro che potessi augurarmi per il suo bene… L’idea di intervenire con la violenza per renderlo simile alla gente di suo padre era aberrante.

    «Ascoltatemi» insisté il dottore. «Un mezzosangue non entrerebbe mai a far parte della società di Burgue: verrebbe deriso, allontanato, lasciato ai margini. In altri termini, sarebbe un reietto. Non gli verrebbe concessa un’istruzione, tanto meno riuscirebbe a trovare un lavoro dignitoso. Nessuno lo accetterebbe davvero, né gli umani né i fatati. Un’esistenza del genere non è meno penosa della rimozione delle ali.»

    Il mio animo si ribellava all’atroce verità di quelle affermazioni. Sentii le lacrime pungermi gli occhi.

    «Rifletteteci, per favore» ribadì il dottor Morange, in tono triste ma deciso. «Io ci ho pensato a lungo, prima di giungere a questa conclusione, ma la scelta finale spetta soltanto a voi. Mancano circa due mesi al parto, il che significa che avete ancora tempo a sufficienza per decidere. Vi assicuro che non ho intenzione di mettervi fretta.»

    Tirai su col naso, sforzandomi di allentare la presa ai lati dell’addome.

    «Abbiate coraggio.» Il mio interlocutore mi posò una mano sulla spalla, nel tentativo di donarmi un po’ di conforto. «Non siete sola. Vedrete, in un modo o nell’altro la questione si risolverà.»

    Annuii, con la gola secca. «D’accordo.» La mia voce suonò stanca e rauca. «Adesso vi chiederei di andarvene, se non vi dispiace. Ho bisogno di riposare.»

    «Certo» disse lui, comprensivo. «Vi suggerisco di far preparare ad Afissa un infuso di camomilla e sdraiarvi per almeno un’ora. Vi gioverà molto. Per qualsiasi vostra necessità, ricordate che il signor Spurnrose sa dove trovarmi.»

    «Vi ringrazio per la premura, dottore.» Lo accompagnai fino alla soglia della stanza, dove scambiammo un ultimo sguardo. Lo salutai con un cenno e tornai verso il letto che occupavo ormai da mesi. Solo allora il bambino fece sentire la sua presenza con un paio di calcetti – e lasciai che le mie lacrime fuoriuscissero, incontrollate e incontrollabili, emblema tangibile del mio dolore.


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    Prologo

    Capitolo Primo
    Luce nelle tenebre


    Capitolo Secondo
    Ali e lacrime


    Capitolo Terzo
    Il mezzosangue


    Capitolo Quarto
    Dire addio


    Capitolo Quinto
    Uno strano ragazzo


    Capitolo Sesto
    Mai così vulnerabile


    Capitolo Settimo
    Un giorno di sangue e morte


    Capitolo Ottavo
    Egoismo


    Capitolo Nono
    Le ceneri di un amore


    Capitolo Decimo
    Fare la cosa giusta


    Capitolo Undicesimo
    Carne giovane


    Capitolo Dodicesimo
    Una verità sconvolgente


    Capitolo Tredicesimo
    La fine del gioco


    Epilogo


    Le voci narranti

    Postfazione

    Note sulla pronuncia dei nomi

    Riepilogo dei termini del glossario



    Edited by Elizabeth Swann - 26/11/2023, 19:25
     
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    Capitolo Primo
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    È strano come la vita ti sorprenda sempre, come nei periodi più luminosi e felici ti tradisca, facendoti sprofondare nell’oscurità, e durante i frangenti più bui permetta a un barlume di luce di rischiarare appena le tenebre.

    La scoperta della gravidanza fu una specie di tornado per me e subito capii di essere in un bel pasticcio: non ero così ingenua da credere che il mondo sarebbe stato gentile con il bambino illegittimo di un umano e di una fata. Decisi di parlare con Absalom il prima possibile, sperando che suo padre non venisse a conoscenza del nostro incontro, ma lui non volle vedermi. Ero sicura che, se avesse saputo la verità su di me, non sarebbe rimasto indifferente; al tempo stesso, mi rendevo conto che non aveva senso corrergli dietro, a maggior ragione dopo il suo rifiuto. Era probabile che non mi amasse nemmeno – e rischiare di scatenare le ire di suo padre sarebbe stato un errore. Non solo avrei creato scandalo, ma sarei potuta finire in seri guai e a pagarne le conseguenze sarebbe stata la creatura innocente che aspettavo.

    In seguito fui accolta nella lussuosa dimora del signor Spurnrose, che mi ospitò, si assicurò che non mi mancasse nulla e mi affidò alle cure del suo amico medico. Accettai con gratitudine, poiché non avevo altro posto dove andare, a meno di non rendere pubblica la gravidanza. Se fossi rimasta a casa mia, infatti, la notizia si sarebbe diffusa, mentre dal signor Spurnrose potevo soggiornare nell’anonimato. Ecco, quella prospettiva fu la mia luce nell’oscurità e nell’incertezza del momento. Restai per mesi a Villa Spurnrose, imparando a voler bene sempre di più al piccolo uragano dentro di me, man mano che cresceva e si muoveva con maggiore energia… fino a quando il dottor Morange osò farmi una proposta tremenda.

    Avevo sempre saputo di dover prendere una decisione in merito al futuro del bambino. La scelta da me privilegiata era l’adozione: speravo che una famiglia di umani o di fatati potesse arrivare laddove io e Absalom non saremmo arrivati mai. Tuttavia, ero preoccupata perché la mia gente svolgeva solo lavori umili a Burgue, o addirittura malpagati, il che non rappresentava uno scenario incoraggiante. Quanto alle famiglie umane benestanti della zona, era improbabile che avrebbero adottato un neonato con sangue di fatato nelle vene. Ad ogni modo, volevo credere che ci fosse una soluzione, che il bambino potesse avere la possibilità di essere allevato con amore e condurre un’esistenza serena.

    Sapevo che il dottor Morange era più propenso ad affidarsi all’orfanotrofio Luce del Martire, dove lavoravano alcune sue conoscenze, poiché secondo lui costituiva una buona garanzia. Lì era la quotidianità avere a che fare con bambini provenienti da famiglie disagiate, trovatelli, orfani e quant’altro; difficile che un caso come il mio non smuovesse il cuore di nessuno. Io stessa, essendo amica del direttore Finch, non avevo motivo di dubitare della sua generosità e disponibilità. Fu così che, quando il dottore disse che un neonato con le ali non sarebbe mai stato ammesso all’orfanotrofio, a meno che queste ali non venissero rimosse, mi crollò il mondo addosso.

    Rifiutavo quell’idea con ogni fibra del mio essere. Era impensabile che permettessi una simile atrocità. Augurarsi che il bambino nascesse senz’ali era un conto, ma reciderle… Come avrei potuto tollerare un atto tanto violento e contronatura? Le ali delle fate sono la loro gioia – la nostra gioia, il nostro orgoglio e la nostra forza. Può diventare complicato averle in una società di umani che non accetta la diversità, ma quale fatato vorrebbe mai privarsene?

    Eppure una parte di me riconosceva la verità nelle parole del dottor Morange. Avrei partorito un mezzosangue e, quale che fosse il suo sembiante, la sua vita sarebbe rimasta sospesa fra due universi, nessuno dei quali, con tutta probabilità, avrebbe potuto essere la sua vera casa. Sempre in bilico, sempre alla ricerca di un luogo al quale appartenere… Questa era la sorte a cui sarebbe andato incontro, se le sue origini fossero state note.

    «Un mezzosangue non entrerebbe mai a far parte della società di Burgue: verrebbe deriso, allontanato, lasciato ai margini… Nessuno lo accetterebbe davvero, né gli umani né i fatati» aveva dichiarato il dottore con cupa determinazione. Per quanto mi costasse ammetterlo, non si sbagliava. Se fosse stato in torto, avrei respinto subito la sua proposta; mi rendevo conto, invece, che così non era. Fu allora che piombai nella più tetra disperazione e impiegai due intere settimane a riemergere dal tunnel.

    In una notte di tempesta, tormentata da incubi pieni di sangue e ali strappate alla radice, mentre il bambino si dimenava irrequieto nel mio grembo, decisi di alzarmi. Avevo mal di schiena e le mie gambe erano deboli, ma sentivo il bisogno di muovermi, poiché un po’ di moto mi avrebbe aiutata ad allontanare le immagini disturbanti che infestavano i miei sogni. Scostai le coperte, mi tirai su e ravvivai il lume sul comò di legno pregiato, situato accanto al letto a baldacchino dove mi era concesso dormire. Dopo essermi avvolta in una soffice vestaglia, sulla quale erano stati praticati due buchi appositi per far uscire le ali, mi avvicinai a passo lento alla finestra della stanza. Rabbrividii, malgrado la lana che mi avvolgeva. Un potente tuono rimbombò per tutta la casa ed ebbi la sensazione che il bambino ne fosse spaventato – forse perché anch’io non avevo mai amato i temporali.

    «Shh, va tutto bene» lo rassicurai, accarezzandomi la pancia. «La mamma è qui, tesoro.»

    La risposta fu un colpetto del suo piede. Continuai a parlare a voce bassissima, quasi volessi rivolgermi a me stessa.

    «Va tutto bene, davvero. Non temere.»

    Fuori la pioggia scorreva come se qualcuno la facesse venir giù a secchiate. La sentivo scrosciare al di là degli scuri delle finestre, ne avvertivo l’odore. Mi chiesi per quanto tempo sarebbe andata avanti. A Burgue pioveva spesso, ma in quegli ultimi giorni pareva che il maltempo dovesse accanirsi contro la città, tanto che non avevo più visto il sole dalla visita del dottor Morange.

    Ricevetti qualche altro calcio: il mio piccolo uragano non voleva calmarsi. Accompagnai i miei sussurri con ulteriori carezze.

    «Ci sono io con te» dissi. «Sei al sicuro, amore mio.» Non conoscendo il sesso del nascituro, avevo preso in considerazione moltissimi nomi, sia maschili che femminili, nessuno dei quali mi convinceva fino in fondo. Alla fine mi ero accontentata di alcuni appellativi affettuosi che potevano andar bene sia per una bimba che per un bimbo, e li riservavo per i nostri momenti – quelli in cui mi sentivo più in connessione con lui o lei. Durante i colloqui con il medico, o in altre situazioni simili, mi limitavo a utilizzare il termine “bambino” in senso generico.

    Buffo che, in oltre cinquant’anni di vita, non mi fossero mai mancate l’immaginazione e la creatività, mentre adesso non riuscivo a figurarmi nessuna fisionomia precisa. Per questo motivo non ero in grado di trovare un nome proprio che mi suonasse adatto. C’era poi la questione dell’addio sempre più imminente: prima o poi avrei dovuto separarmi dalla mia creatura, per affidarla a qualcuno che riuscisse a prendersene cura nel modo migliore.

    Le parole del dottore tornarono a ossessionarmi e appoggiai le dita sulle mie tempie. In quei giorni avevo lottato in silenzio, decisa a non cedere, ma ormai mi sentivo troppo stanca. Dovevo affrontare la realtà – e ciò equivaleva ad accettare che il bambino potesse nascere con le ali, cosa che avrebbe chiuso le poche porte disponibili. Come se non bastasse, non era detto che quelle ali funzionassero a dovere: secondo le storie non era raro che i mezzosangue fossero incapaci di volare a lungo, o anche solo di alzarsi in volo, e che morissero a causa dei loro tentativi di adeguarsi allo stile di vita delle fate.

    Forse l’unica persona su cui il bambino potesse contare ero io. Ero la sola che l’avrebbe amato incondizionatamente, al di là di qualsiasi difetto o deformità. L’amavo già; perché non mi assumevo la responsabilità di essere sua madre fino in fondo? Perché non decidevo di allevarlo e basta? Avevo pur sempre un lavoro e un tetto sopra la testa, anche se non ero certo ricca…

    Un lampo illuminò il telaio della finestra e un altro tuono rombò in lontananza. Affondai il volto fra le mani, conscia più che mai della mia vulnerabilità, della mia inadeguatezza.

    Non sarei riuscita a provvedere alle necessità del bambino, a far sì che ottenesse tutto ciò che meritava. Ero da sola, in un luogo dove il mio popolo contava poco o nulla, e non guadagnavo abbastanza soldi per permettermi di mantenere un figlio. Cos’avevo da offrire, se non il rischio della povertà e la durezza dell’isolamento – isolamento che sarebbe stato ancor più accentuato, in caso di riconoscibilità della condizione di mezzosangue? Né il dottor Morange né il signor Spurnrose avrebbero potuto aiutarmi a uscire da quella situazione, al di là della loro cortesia e affabilità. Restava un modo soltanto per garantire al bambino l’opportunità di crescere, studiare, trovare un suo posto nel mondo: consegnarlo, anima e corpo, alla società degli umani. Darlo a Burgue e assicurarsi che vi appartenesse, pagando in cambio qualsiasi prezzo.

    Cominciai a piangere, la mano premuta sulla bocca. Di nuovo sentii dei movimenti nel mio grembo – e mi angosciò il pensiero che quello stato d’animo nuocesse al mio piccolo tesoro. Soffocando i singhiozzi, ripresi a massaggiarmi l’addome.

    «N-non devi… aver paura» riuscii a farfugliare. «Sono la tua mamma e… e ti voglio bene.» Ansimai, sopraffatta dal dolore che mi squarciava il cuore in mille pezzi. «Te ne vorrò sempre… Q-qualunque cosa succeda» balbettai, le lacrime che mi inondavano il viso. Calò il silenzio, rotto solo dai miei singulti e dai rumori della tempesta sul punto di calmarsi. Infine, quando il mio attacco di pianto divenne più gestibile, parlai ancora.

    «Se tu dovessi soffrire, ricorda che nessuna delle tue sofferenze durerà a lungo» promisi. «Passerà e sarai felice. Dopo il temporale torna a splendere il sole, anche se a volte è necessario aspettare per vederlo. Dopo il buio viene la luce. Sarà così anche per te, non ho dubbi. Abbi fede, amore mio: un giorno smetteremo di patire, non so dove e non so quando, ma so che accadrà. Riposa, adesso. Veglierò io su di te, finché mi sarà possibile proteggerti.»

    Improvvisai una melodia che somigliava un po’ a una ninna nanna, aggiungendo qua e là qualche parola del mio discorso. Quel canto esitante e smorzato fu il mio bagliore nell’oscurità: mi ci aggrappai con tutta me stessa. Da allora mi preparai giorno per giorno al distacco finale dal bambino, così come all’eventuale trauma che avrebbe subìto con la rimozione delle ali. Pregai fino all’ultimo che una misura del genere non fosse necessaria e, intanto, scrissi un testo per la canzone, affinché la presenza del mio piccolo tesoro non mi abbandonasse mai. Non contavo di riprendere a esibirmi tanto presto, però ero conscia che soltanto l’arte mi avrebbe aiutata a sopportare la solitudine, il senso di colpa e il tormento della separazione. Al termine della gravidanza mi restava un’unica strofa da sistemare.

    Il parto non fu facile, sebbene le doglie fossero iniziate il giorno esatto previsto dal dottor Morange. Per la verità era sera, sul tardi. Pioveva di nuovo, malgrado la settimana fosse stata allietata da alcune belle mattine soleggiate, che rinfrancavano lo spirito e portavano sollievo al cuore. Fui assistita dalla governante del signor Spurnrose, oltre che dal medico; dopo lunghe ore di travaglio – circa tredici, mi fu riferito in seguito – un pianto infantile risuonò nella camera.

    «È un maschio e sembra sano» disse il dottore. «Afissa, cortesemente…»

    La governante lo aiutò a dare una pulita al neonato, prima del taglio del cordone ombelicale. Quando queste importanti operazioni furono finite, riuscii a tenere in braccio mio figlio.

    Era rosso in viso e strillava, il suo corpicino caldo e vibrante di vita contro il mio seno. Aveva una leggera spolverata di capelli e ogni singolo arto al posto giusto, senza tracce visibili di malformazioni. Dalla schiena gli spuntavano due alucce perlacee, così sottili da risultare quasi del tutto trasparenti. Notai che Afissa le osservava.

    «Sembra sano» ripeté il dottore, ma lo ascoltai appena. Ero dilaniata da sentimenti contrastanti: da un lato provavo un amore fortissimo, unito a un desiderio schiacciante di proteggere e accudire quella meraviglia che si era appena affacciata sul mondo; dall’altro lato, però, la vista delle ali bastava a devastarmi. La sorte di mio figlio era segnata. Nessuno l’avrebbe scambiato per un umano – e qualsiasi speranza residua di farlo crescere come un fatato era ormai stata spazzata via. Sentivo quanto delicata e fragile fosse la membrana alare: era improbabile che si rafforzasse a sufficienza negli anni dello sviluppo. Avrebbe dovuto essere più solida già dalla nascita, affinché imparare a volare diventasse fattibile. Mi era capitato di vedere dei neonati, in passato, e non ce n’era stato neppure uno con ali uguali a quelle del mio piccolino.

    Mi accorsi che il dottor Morange mi guardava con occhi addolciti dalla compassione. Gli avevo comunicato qualche tempo prima la mia decisione di lasciare che il bambino venisse allevato come un umano: non c’era molto altro da aggiungere, non più.

    Mi fu concesso di allattare, dopodiché fu stabilito che il dottore sarebbe tornato alla villa il pomeriggio seguente, per controllare come stavo e… per prendere mio figlio con sé. Era meglio non rimandare troppo, o l’allontanamento sarebbe diventato più doloroso.

    Cullai il bimbo fino a farlo addormentare. Avrei voluto cantare per lui, ma ero sfinita. Gli diedi un bacio sulla testa e rimasi in silenzio, ascoltando il fruscio del vento che fischiava contro la finestra della camera. Se non altro, aveva smesso di piovere da qualche ora e fra le nuvole s’intravedeva un timido raggio di sole.

    Io e il dottore eravamo gli unici a sapere quale destino attendesse mio figlio, anche se Afissa e il signor Spurnrose, con ogni probabilità, nutrivano dei sospetti. Lei, in particolare, avrebbe desiderato saperne di più anche sul mio conto, su quali circostanze mi avevano portata a rimanere incinta, sul padre del bambino… Solo che era troppo discreta per porre domande personali. All’inizio non era stata entusiasta della decisione del signor Spurnrose di ospitarmi, forse perché si preoccupava per la reputazione del suo padrone, ma si era sempre comportata in maniera irreprensibile con me. Avevo avuto addirittura la tentazione di raccontarle la mia storia. A impormi di non farlo era stata la paura che poi lei si lasciasse sfuggire qualcosa: in fondo, non la conoscevo così bene da concederle tanta fiducia.

    Malgrado questo, le fui sempre grata per essermi stata accanto, sia durante il parto che dopo. Inoltre, Afissa mi lasciò da sola con mio figlio tutte le volte in cui ne avevo più bisogno: in quei brevi attimi riuscii a sentirmi una madre degna di questo nome, nutrendo e cambiando il piccolo, consolandolo se piangeva e cantandogli la mia ultima canzone, interamente dedicata a lui.

    Adorai ciascuno di quei fugaci, preziosi frangenti, nonostante l’ombra incombente del distacco. All’operazione cercai di pensare il meno possibile, anche se il dottore mi aveva assicurato che avrebbe fatto del suo meglio affinché fosse piuttosto rapida. Provai a distrarmi studiando i lineamenti del mio bimbo, alla ricerca di una somiglianza con me o con Absalom, ma avevo l’impressione che non avesse molto in comune con nessuno dei suoi genitori. In compenso, sembrava in ottima salute e aveva un visino adorabile, tondo e liscio, con due occhioni dolci e una boccuccia rosea. Non gli mancava niente, nemmeno l’appetito. Quando lo allattavo si rilassava tra le mie braccia, felice e contento. Le sue ali sbatacchiavano contro la schiena, ma erano così gracili e leggere che supponevo le sentisse a stento. Mi si stringeva il cuore al loro minimo movimento.

    Mi domandai se, con un’accurata alimentazione, una buona dose di esercizio fisico e un po’ di fortuna, quelle ali avrebbero potuto funzionare. Forse ai mezzosangue non era sempre precluso volare, forse c’era chi aveva uno sviluppo tardivo, che era necessario favorire e stimolare. Riuscivo a immaginare con facilità il mio bimbo sollevarsi in aria… ma davvero mi sarei azzardata a inseguire una visione così labile, che non aveva alcun fondamento fuorché l’ultima e più misera delle mie speranze? Non mi azzardai, infatti. Consegnai il mio amato tesoro al dottor Morange, nel giorno convenuto, senza nemmeno suggerire un nome, altrimenti avrei finito per sceglierne uno appartenente alla tradizione del mio popolo.

    «Perdonami, amore mio, se ti accorgerai di voler volare e non potrai farlo» mormorai sulla sua fronte. Non m’illudevo che gli istinti della sua metà fatata scomparissero del tutto: i bambini della mia specie nascono con l’impulso e il desiderio del volo, è la nostra natura. Anche se mio figlio non avrebbe mai potuto ricordare di essere venuto al mondo con le ali, un giorno sarebbe andato incontro alla verità sulle sue origini. Magari, prima di ottenere delle risposte certe, avrebbe sognato di volare o finto di esserne in grado. Pregai che il buon direttore dell’orfanotrofio sapesse come tenerlo d’occhio e limitare al minimo i giochi pericolosi. Chissà quante cadute avrebbe rischiato il mio bimbo…

    «Perdonami» ripetei con un nodo alla gola. «Per la terribile perdita che subirai, per tutte le volte che cadrai.»

    Con un bacio finale sulla sua tempia, acconsentii a deporlo fra le braccia del dottore. In capo a qualche giorno, prima di congedarmi dal signor Spurnrose per tornare a casa mia, adattai una parte di quelle frasi di commiato alla melodia della mia canzone, terminando la strofa rimasta incompleta. Fu il solo lato positivo di quella situazione disperata: non riuscii mai a trovarne degli altri.

    Edited by Elizabeth Swann - 7/7/2023, 12:45
     
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    Ho letto con piacere il prologo e ancora più il primo capitolo. E' molto bello il discorso sui momenti, o meglio quei bagliori, di luce che avvengono nell'oscurità, ma anche quella nota amara del contrario. Poi lo sviluppo di tutto quello che è l'amore di una madre, dovendo fare una scelta molto complessa: è una scelta che dilania il cuore e lascia sempre qualche dubbio su tutte le possibilità, quelle che si perdono e quelle che si guadagnano. Veramente scritto bene e molto avvincente. :b: :*:
     
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    Grazie mille, Nancy! L'amore materno non è facile da rappresentare per chi non ha figli, ma ho fatto del mio meglio *^^*
    La contrapposizione fra luce e oscurità, invece, mi è venuta naturale, devo ammetterlo.
     
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    Elizabeth Swann

    Ho letto il prologo! Molto molto bello! Ammetto che i nomi, non avendo visto la serie e non conoscendo la pronuncia, sono molto contorti per me che sono dislessica 🤣 quindi mi inceppavo un po' ma per il resto è ottima!
    Mi è piaciuta tanto, molto scorrevole e molto piacevole da leggere.
    Scrivi davvero bene 🥺 e poi mi piace che il dottore è così compassionevole per entrambi... mi chiedo come mai le fate non possono accettare il bambino se ha le ali... e soprattutto cos'ha di diverso un mezzosangue dalle altre fate? 🤔 cioè l'aspetto, per quel che ho visto, non è tanto diverso da quello degli umani a parte le ali, quindi non capisco... ma sono dubbi da chi non ha visto la serie 🤣

    CITAZIONE
    abbastanza ben integrati

    C'è solo questa parte che non mi convince, l'aver messo "abbastanza" vicino a "ben" perché mi sembra che i due significati possano cozzare un po' 🤔 cioè sono abbastanza integrati ma anche bene integrati? Capisco il significato di ciò che volevi dire "che sono integrati bene ma non troppo" giusto? Però non andrebbe bene solo "abbastanza" ?

    Per il resto è tutto perfetto e scritto benissimo 😍
    La copertina sta davvero bene! Non per vantarmi 🤣 ma nel complesso per come hai impostato le cose sta benissimo!

    Complimenti! Spero di riuscire a leggere il seguito presto.


    Ok, ho letto anche il seguito. È molto struggente...
    Personalmente (davvero un opinione molto, molto soggettiva) mi ha fatto senso tutti quei riferimenti al bambino che si muove 🤣 ma perché a me non piace, però oggettivamente è scritta benissimo e molto materno e affettuoso. Hai rappresentato molto bene i pensieri e gli atteggiamenti di una madre, insomma ti sei calata bene nella parte.

    L'ho trovata molto scorrevole e molto piacevole come lettura, non riuscivo a smettere di leggere per come filava (a parte per i nomi che certe volte mi impappinavano). Che dire... molto, molto bella! Mi sarei commossa di più, probabilmente, se avessi visto la serie e se non avessi problemi io con le gravidanze 🤣 però già verso la fine, per me, è stato più immersivo. Mi sono immaginata Philo molto carino e morbidissimo (anche se me lo vedo già come un bimbo di qualche mese perché quelli appena nati non me gustano, si sono pessima 🙈🤣)

    Comunque complimenti di nuovo!

    Edited by Rue Ryuzaki - 6/8/2022, 21:33
     
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    CITAZIONE (Rue Ryuzaki @ 6/8/2022, 10:10) 
    Ho letto il prologo! Molto molto bello! Ammetto che i nomi, non avendo visto la serie e non conoscendo la pronuncia, sono molto contorti per me che sono dislessica 🤣 quindi mi inceppavo un po'

    In effetti, pare che gli autori abbiano fatto a gara per cercare i nomi più complicati e strani X) Ma spero che più avanti riuscirai comunque a tenere a mente chi sono i personaggi della storia...

    CITAZIONE (Rue Ryuzaki @ 6/8/2022, 10:10) 
    Mi è piaciuta tanto, molto scorrevole e molto piacevole da leggere.
    Scrivi davvero bene 🥺

    Grazie mille! Mi lusinghi molto... Sai quant'è importante per me la scrittura <3

    CITAZIONE (Rue Ryuzaki @ 6/8/2022, 10:10) 
    mi piace che il dottore è così compassionevole per entrambi... mi chiedo come mai le fate non possono accettare il bambino se ha le ali... e soprattutto cos'ha di diverso un mezzosangue dalle altre fate? 🤔 cioè l'aspetto, per quel che ho visto, non è tanto diverso da quello degli umani a parte le ali, quindi non capisco... ma sono dubbi da chi non ha visto la serie 🤣

    Il dottor Morange è indubbiamente un brav'uomo!
    Per quanto riguarda le questioni che poni, in realtà nella serie non si sa molto sui mezzosangue... anzi, diciamo pure che non si sa quasi nulla :? Una delle pochissime informazioni che ci vengono date è che di solito non sopravvivono, ma mica viene spiegato il perché :huh: Diciamo che la cosa rimane avvolta nel mistero...
    Quindi, insomma, ho dovuto lavorare un po' di fantasia per "riempire i buchi" (: Poiché Burgue è una città di umani e i fatati tendono a restare ai margini della società, svolgendo lavori umili o tirando avanti alla meno peggio, sono partita dal presupposto che per chiunque di loro sarebbe difficile adottare un bambino... Voglio dire, quando si dispone a malapena del denaro sufficiente per sé stessi, non credo si desideri avere un'altra bocca da sfamare, non trovi? Si tratta soprattutto di ragioni economiche, ecco.
    Poi, vabbè, magari qualcuno poteva avere dei pregiudizi sui mezzosangue come conseguenza del proprio astio verso gli umani. Non tutti i fatati sono gentili - e comunque l'astio un po' si può capire, perché la maggior parte degli umani li guarda dall'alto in basso, o peggio ancora li discrimina.

    In tutto questo direi che i mezzosangue non hanno colpa, però resta il fatto che non appartengono completamente al mondo dei fatati e nemmeno alla società degli umani. È vero che non sono molto diversi né dagli uni né dagli altri, ma se tantissimi umani sono razzisti verso i fatati mi pare ovvio che lo siano anche nei confronti dei mezzosangue :( E a conti fatti è soprattutto l'opinione degli umani che influenza la città di Burgue...

    CITAZIONE (Rue Ryuzaki @ 6/8/2022, 10:10) 
    CITAZIONE
    abbastanza ben integrati

    C'è solo questa parte che non mi convince, l'aver messo "abbastanza" vicino a "ben" perché mi sembra che i due significati possano cozzare un po' 🤔 cioè sono abbastanza integrati ma anche bene integrati? Capisco il significato di ciò che volevi dire "che sono integrati bene ma non troppo" giusto? Però non andrebbe bene solo "abbastanza" ?

    Sai che non ci avevo pensato? Mi sa che hai ragione... Grazie per la dritta, correggerò la frase!

    CITAZIONE (Rue Ryuzaki @ 6/8/2022, 10:10) 
    Per il resto è tutto perfetto e scritto benissimo 😍
    La copertina sta davvero bene! Non per vantarmi 🤣 ma nel complesso per come hai impostato le cose sta benissimo!

    Aaaw :]
    Sì, la copertina è fantastica, sei stata fenomenale!

    CITAZIONE (Rue Ryuzaki @ 6/8/2022, 10:10) 
    ho letto anche il seguito. È molto struggente...
    Personalmente (davvero un opinione molto, molto soggettiva) mi ha fatto senso tutti quei riferimenti al bambino che si muove 🤣 ma perché a me non piace, però oggettivamente è scritta benissimo e molto materno e affettuoso. Hai rappresentato molto bene i pensieri e gli atteggiamenti di una madre, insomma ti sei calata bene nella parte.

    Sai che anch'io sono rimasta un po' stranita quando ho letto per la prima volta un passaggio dedicato a una donna incinta? È stato un bel po' di tempo fa, però... Ero adolescente. Ricordo che i riferimenti al bambino mi avevano messa un tantino a disagio X) Quindi ti posso capire!
    Crescendo ho cambiato prospettiva, imparando ad apprezzare questo tipo di scene. Ovviamente ci sta che non piacciano a tutti... La gravidanza è un'esperienza molto complessa e particolare! A me incuriosisce un sacco, anche se non credo che avrò mai dei figli :rolleyes: Però mi rendo conto che noi donne non siamo tutte intenzionate a partorire, o interessate al tema della maternità. È una questione soggettiva, insomma :)

    CITAZIONE (Rue Ryuzaki @ 6/8/2022, 10:10) 
    L'ho trovata molto scorrevole e molto piacevole come lettura, non riuscivo a smettere di leggere per come filava (a parte per i nomi che certe volte mi impappinavano). Che dire... molto, molto bella!

    Grazie ancora! Finirò per diventare un peperone con tutti questi complimenti *^^*

    CITAZIONE (Rue Ryuzaki @ 6/8/2022, 10:10) 
    Mi sarei commossa di più, probabilmente, se avessi visto la serie e se non avessi problemi io con le gravidanze 🤣 però già verso la fine, per me, è stato più immersivo. Mi sono immaginata Philo molto carino e morbidissimo (anche se me lo vedo già come un bimbo di qualche mese perché quelli appena nati non me gustano, si sono pessima 🙈🤣)

    Ma no, non sei pessima, ah ah :XD:
    Sono sicura che ti commuoveresti alla vista del piccolino... Nella serie si vede brevemente in un flashback, poco prima che gli vengano recise le ali :cry: Quindi la scena non può lasciare indifferenti (al di là dell'età effettiva del neonato).
    Per quanto riguarda i riferimenti alla gravidanza, dato che ormai il parto è avvenuto puoi stare tranquilla ;)


    Sei stata molto carina a commentare così presto e in maniera tanto approfondita, quindi ti sono davvero grata :*: Spero di pubblicare presto il prossimo capitolo!
     
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    Capitolo Secondo
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    La casa mi parve troppo vuota e silenziosa quando la fata cantante la lasciò. Strano, perché la sua presenza mi aveva provocato un forte disagio, almeno per i primi tempi: temevo che in giro si venisse a sapere che il mio padrone la ospitava, con conseguenti ripercussioni sul buon nome degli Spurnrose. Dopo che se ne fu andata, invece, avrei voluto poter fare di più per quella madre sfortunata, anche a costo di vederla rimanere alla villa un altro mese.

    Non che determinate decisioni spettassero a me: ero solo una domestica, perciò tenni la bocca chiusa e continuai le mie attività di sempre. Gli impegni non mi mancavano e, a differenza di altri fatati di Burgue, avevo un salario dignitoso e un tetto sopra la testa. Anche così, però, non smettevo di pensare a ciò che era accaduto. Forse dipendeva dal fatto che ero stata assunta da poco e che mai mi sarei aspettata di assistere qualcuno durante il parto; insomma, quella non era certo una delle mie mansioni tipiche! L’esperienza mi aveva segnata, in vari sensi. Mi era stato dimostrato nel modo più duro che tra umani e fatati esisteva un abisso di differenze: tutt’al più potevano tollerarsi a vicenda, ma non stringere legami o collocarsi sullo stesso piano. Il signor Spurnrose, ad esempio, mi aveva dato un lavoro e tanto bastava.

    La fata doveva essersi illusa che l’umano con cui aveva avuto una relazione le desse amore, magari accettando la prospettiva di sposarsi e vivere insieme. Che ingenua! Un’idea simile era completamente fuori dalla realtà. Cosa credeva, che la sua voce canterina potesse fare miracoli? È proprio vero che l’amore acceca…

    Mi chiedevo come si fossero incontrati, quei due, e chi fosse l’umano. Un esponente dell’alta società di Burgue? Un perdigiorno? Un militare? Uno studente? Lei non l’aveva mai menzionato, nemmeno per sbaglio. Era spaventata? Probabile. Se fosse venuto fuori che aveva subìto minacce di qualche tipo, non mi sarei sorpresa. In ogni caso, era chiaro come la luce del giorno che voleva allontanarsi da quell’uomo. Per la maggior parte del tempo l’avevo vista preoccupata, taciturna o addirittura angosciata. Secondo me quegli stati d’animo non erano causati solo dall’ansia per l’avvenire del figlio… anche se sapere di portare in grembo un mezzosangue non doveva essere stata una passeggiata, anzi. Tra i fatati girano abbastanza storie al riguardo da togliere il sonno a qualunque futura madre! Alla fine il bambino era nato sano, stando alle parole del dottor Morange… però dubitavo che sarebbe sopravvissuto.

    Ah, quel povero piccino! Pensai spesso anche a lui, dopo che la fata se ne andò. Sembrava puro e innocente; d’altronde, era ignaro delle ingiustizie della vita. Piangeva molto forte, ma poche volte. Gorgogliava felice in braccio a sua madre, si lasciava coccolare. Aveva l’aria di essere un bambino dolce e giocherellone. Per lui provavo una gran pena, dato che non era destinato a un’esistenza felice. Era come se fosse solo al mondo: nessuno l’avrebbe accudito con amore, nessuno avrebbe badato alle sue necessità ed esigenze. E quelle alucce tristi sulla sua schiena… Erano davvero troppo minute, davano la netta impressione di poter finire a brandelli alla prima raffica di vento. Nessuna fata avrebbe mai desiderato un paio d’ali del genere, lo capivo perfino io che appartenevo a una famiglia di fauni.

    La madre si era subito resa conto della situazione, ma non aveva detto nulla. Non a me, perlomeno. S’intendeva già col dottor Morange senza bisogno di molte parole, perché era chiaro che lui l’aveva aiutata a prendere una decisione settimane prima. Qualsiasi fosse stata la sua scelta, le era costata uno strazio senza fine: nei suoi ultimi giorni alla villa aveva pianto come una fontana, tanto da farmi venire il dubbio che il dottore avesse ucciso il bambino. Era un’alternativa orribile e l’avevo esclusa presto, ma l’intera storia rimaneva una vicenda strappacuore.

    Chissà se a Burgue c’erano altri mezzosangue. Avrei voluto chiederlo a qualcuno e ottenere una risposta. Purtroppo, non era fattibile: dovetti rassegnarmi, cercando di ignorare il problema, e non fu facile.

    Il mio padrone, al contrario, fu in grado di mettere una pietra sopra la faccenda. Forse era convinto di aver fatto tutto il possibile per quella madre disperata, perché smise di nominarla e si concentrò sui propri affari. Non gli davo torto, in fondo. Aveva delle finanze da gestire, incontri mondani da mettere in agenda, una moglie da cercare. Non poteva perdere tempo a soffermarsi sulle disgrazie altrui. Il dottor Morange, invece, sembrò più toccato dal dramma della fata e del suo bambino. Lo incontrai per caso mentre andavo a far compere, circa una settimana dopo la nascita, ed era stanco e serio, con le occhiaie pronunciate.

    «Salve, dottore» esclamai. «State bene? Non sembrate molto in forma.»

    «Afissa.» Mi salutò con un cenno del capo. «Ho avuto parecchio lavoro in questi giorni. Un po’ di riposo non mi dispiacerebbe, ma al momento non mi è concesso. Il tuo padrone come sta? Spero che alla villa vada tutto bene.»

    «Oh, sì, vi ringrazio. Il signor Spurnrose è in perfetta salute.»

    «È una bella notizia» disse il dottore. «Portagli i miei saluti.»

    «Naturalmente» risposi. Poi gli lanciai un’occhiata d’intesa e abbassai la voce. «Avete saputo qualcosa di…?» Non completai la frase, augurandomi che lui capisse l’antifona.

    Divenne ancora più serio. «Ti suggerisco di dimenticare quella brutta storia. Lei è tornata alla sua vita e noi faremmo meglio a non parlare più di quanto è successo. Non hai raccontato a nessuno cos’hai visto, vero?»

    Scossi la testa.

    «Ottimo. Continua così, allora. Non vogliamo che qualcuno chiacchieri, rischiando di arrecare danno alla reputazione del tuo padrone.»

    «Sì, capisco. Desideravo soltanto… Ecco, diciamo che non capita spesso di assistere a eventi di quel genere. Mi dispiace per… per lei, come pure per il piccolo. Azzarderei che voi stesso siate dispiaciuto.»

    Il dottor Morange sospirò. «Ovvio che lo sono. La tua gente non gode di gran considerazione qui in città, per usare un eufemismo, ma io sono un medico. Il mio compito è prendermi cura degli altri, per quanto diversi da me possano essere. Ho cercato di farlo anche in questo caso.»

    Annuii, in attesa che lui aggiungesse altro.

    «Talvolta non è facile mantenere il sangue freddo e la razionalità di fronte al dolore dei pazienti. Che scelta ho, del resto? Non posso salvare tutto e tutti. Non posso nemmeno prendere sempre le decisioni che vorrei.» Un altro sospiro. «Te lo ripeto: lascia perdere, Afissa. Non indugiare sull’accaduto, dimentica e vai avanti. È la scelta più sensata. Adesso, se vuoi scusarmi, vado di fretta.»

    «Certo, non preoccupatevi.» Era chiaro che il discorso doveva considerarsi concluso. «Buona giornata, dottore.»

    «A te.»

    Ripresi il mio giro di compere e tornai alla villa, riflettendo su quella conversazione. Ero colpita dall’onestà e dall’umiltà mostrate dal dottore. Anche se il mio padrone aveva sempre parlato molto bene di lui, non ritenevo possibile una tale manifestazione di solidarietà da parte sua. Voglio dire, noi fatati venivamo sempre trattati con sufficienza dagli abitanti di Burgue, o addirittura con disprezzo: scansati per la strada, guardati male, apostrofati come “critch”. C’erano le eccezioni, ma erano poche. Per la maggior parte degli umani, il nostro sangue e le nostre caratteristiche fisiche distintive ci rendevano inferiori a loro. Questo spiegava benissimo perché il figlioletto della fata non potesse crescere allo stesso modo di un qualsiasi bambino della città: chi avrebbe voluto farsi carico di quella responsabilità? Chi avrebbe allevato un mezzosangue? Nessuno sarebbe mai arrivato a tanto.

    Non avevo idea di quale soluzione avesse escogitato il dottor Morange, però una cosa era certa: Burgue non era il posto giusto per quel bambino. Gli avrebbe causato solo tormenti e guai, portandolo a considerarsi un essere indegno, immeritevole, al quale non era concesso coltivare aspirazioni o legami. Io non potevo dire di conoscerlo, tanto più che lui aveva soltanto pochi giorni, ma per principio non accettavo l’idea che qualcuno fosse sottoposto a continui giudizi e vessazioni. Qual era la sua colpa, fra l’altro? Non aveva mica scelto di essere messo al mondo! Nessuno di noi ha il potere di farla, quella scelta. Che senso ha, dunque, accanirsi contro il figlio di una fata soltanto perché è figlio di una fata? Come se potesse cambiare la sua condizione e decidere di nascere in una famiglia diversa, da un’altra madre…

    Se l’intera società di Burgue fosse stata progressista quanto il mio padrone, il dottor Morange avrebbe incoraggiato la fata a tirare su lei stessa il bambino, invece di essere costretto a dividerli. Dopo quello che mi aveva detto, ero convinta che lui per primo rimpiangesse di non aver potuto farlo, di non aver offerto a quei due poverini l’opportunità di rimanere insieme. La fata non sembrava una persona rancorosa o diffidente, si era messa nelle sue mani e gli aveva affidato le sorti del piccolo, quindi non credevo che fosse arrabbiata con lui, ma questo non leniva del tutto i suoi sensi di colpa… e nemmeno i miei.

    Esatto, la verità era questa. Razionalmente parlando, sapevo di non essere responsabile di ciò che era successo, di aver già dato il mio contributo, nei limiti delle mie capacità e del mio raggio d’azione. Da un punto di vista emotivo, era un altro paio di maniche. Mi sarebbe piaciuto che le cose fossero andate meglio, senza il dolore e le lacrime che avevo visto. Mi sarebbe piaciuto che quelle alucce striminzite fossero in grado di spiccare il volo. Mi sarebbe piaciuto vedere il bambino giocare in braccio a sua madre e ascoltare lei che gli cantava la ninna nanna, con la garanzia che il loro amore reciproco durasse nel tempo. Non c’è nulla di più desolante che assistere alla recisione del legame materno, all’allontanamento di una donna dal frutto del suo ventre, per quanto questo possa essere il risultato di un’unione problematica o insoddisfacente.

    Faticai molto a seguire il consiglio del dottor Morange e a dimenticare, anche se, come lui, mi ero persuasa che fosse la decisione più sensata. In effetti, non dimenticai mai davvero: è più esatto dire che seppellii quel ricordo in una zona remota della mia mente, sforzandomi di non riportarlo più a galla. Talvolta, però, quando non ero affaccendata tra una stanza e l’altra della villa, tornavo a chiedermi che fine avesse fatto il bambino, se fosse ancora vivo e cercasse la vicinanza con sua madre, o se ormai il suo corpicino giacesse immobile sottoterra, da qualche parte in questa città grigia e indifferente. Ad ogni modo, ovunque lui si trovasse, un sesto senso mi suggeriva che la fata non aveva smesso di soffrire per la sua mancanza, dedicandogli i propri pensieri, le proprie canzoni e le proprie lacrime.

    ~*~*~*~

    Glossario

    Critch: termine dispregiativo utilizzato dagli umani per indicare i fatati. La t è muta, ch si legge come nella parola inglese “church”.



    Edited by Elizabeth Swann - 7/7/2023, 12:59
     
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    Capitolo Terzo
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    Il bambino piangeva di nuovo.

    Lo presi in braccio per cercare di calmarlo, ma si mise a piangere più forte. La sua pelle era arrossata e calda al tatto, le sue urla risuonavano lamentose per tutta la stanza. Provai a dargli da mangiare e lui sopportò il biberon per pochi attimi. Ricominciò ad agitarsi, tenendo i pugni stretti e versando fiumi di lacrime.

    Non sapevo più che pesci pigliare. Maledissi Morange e subito me ne pentii. Era un brav’uomo, voleva soltanto far del bene. Il problema, però, era che adesso ricadeva tutto su di me!

    Continuai a cullare la creaturina infelice, pregando il Martire di alleviare il suo dolore. Era solo un neonato, non poteva pagare per i peccati dei suoi genitori. Purtroppo, sembrava che le mie suppliche cadessero nel vuoto.

    Il piccolo mezzosangue gemeva e singhiozzava in preda alla febbre, a volte si aggrappava a me come se cercasse il seno della madre, senza sapere che lei non c’era. Mi fece una pena così grande che iniziai a piangere anch’io.

    Non era la prima volta che mi succedeva. Dopo gli ultimi anni trascorsi a dare una mano a Morange, in aggiunta ai decenni di servizio all’orfanotrofio, mi era capitato di commuovermi o addolorarmi alla vista di bambini feriti, ammalati gravemente, vittime di qualche disgrazia. Lasciai quindi che la crisi passasse. Intanto, dondolai con dolcezza il neonato, finché i suoi singhiozzi diventarono più deboli.

    Sedetti su una vecchia poltrona sfondata, con gli occhi che bruciavano e le guance bagnate. Il bebè scivolò in un sonno esausto e decisi di non spostarlo, per non disturbare il suo riposo.

    Morange diceva che prima o poi la febbre sarebbe passata, ma non sapevo fino a che punto ci credesse. Di certo non ci credevo io. O meglio, non ero sicura che le cose sarebbero andate bene. Avevo seri dubbi sulla sopravvivenza del piccolo mezzosangue. Morange era un medico, per di più molto competente, nonostante la giovane età… quindi, a rigor di logica, avrebbe dovuto essere più esperto di me. Il punto era che non aveva mai praticato operazioni sulle ali dei critch, prima d’incontrare la madre di questo bambino. Mi chiedevo come fosse riuscita a fargli mettere a rischio la sua promettente carriera e la sua reputazione…

    Sbuffai. Non avevo idea di come si chiamasse questa fata misteriosa, o che diamine combinasse nella vita, ma non mi sarei meravigliata se a lasciarla incinta fosse stato un uomo sedotto che poi si era pentito di aver ceduto ai vizi. Forse lei era una prostituta di strada, oppure aveva voluto farsi ingravidare perché sperava che l’amante la sposasse e la mantenesse con i suoi soldi. Avrei scommesso che era ricco…

    Comunque stessero le cose, chi ci andava di mezzo era il loro figlio, il frutto di quell’unione maledetta. Mi augurai che trovasse un posto tra gli orfanelli della Luce del Martire, diventando un individuo migliore di chi lo aveva generato. Per parte mia avrei fatto il possibile per aiutarlo.

    Trascorsi più di metà nottata sulla poltrona, in barba al mal di schiena e ai fastidi alle articolazioni irrigidite. Quando il bambino ricominciò a dare segni d’irrequietezza, iniziai di nuovo il mio dondolio. Nel frattempo, muovevo le gambe per sgranchirle, intenzionata ad alzarmi in piedi. Appena ci riuscii, camminai con un po’ di fatica e posai il bebè sul lettino improvvisato al centro del tavolo. Non era nient’altro che una grossa cesta di vimini con dentro un cuscino molto soffice, ma si trattava di un’ottima soluzione di emergenza per un neonato con delle lesioni sulla schiena, perché gli permetteva di stare disteso su una superficie piuttosto morbida, riducendo al minimo il dolore. Inoltre, senza culle in casa, mi era impossibile dargli una sistemazione adeguata. Il mio materasso era troppo duro e, in ogni caso, non me la sentivo di lasciar dormire il bambino vicino a me.

    Con un sospiro, diedi il via alle attività più importanti della giornata. Spogliai il bebè e gli bagnai la fronte con acqua fresca. Tolsi le bende intorno al suo busto e lavai sia le braccine che il minuscolo petto, per contribuire ad abbassare la temperatura. Usai un secondo panno inumidito per tamponare le ferite aperte sulla sua schiena, rimuovendo anche le tracce di sangue secco. L’emorragia non si era ancora fermata del tutto, perciò tirai fuori la pomata che mi aveva dato Morange. La spalmai sui tagli con la massima lentezza e cautela, ma non potevo pretendere che il piccolo paziente rimanesse fermo e zitto durante la medicazione: si contorse e piagnucolò, come se ogni mio tocco fosse una tortura.

    «Stai tranquillo» borbottai, dandogli un buffetto sulla gamba. «Ho quasi finito.»

    Dopo averlo avvolto nelle bende pulite, cambiai anche il pannolino e gli infilai una camicia da notte nuova – per modo di dire, visto che era appartenuta a una delle mie nipoti. Infine, lo coprii con il pezzo di lenzuolo che fungeva da completamento per il lettino arrangiato. Sopra ripiegai il mio scialle di flanella verde. Non volevo che il bambino sudasse, ma nemmeno che prendesse freddo. C’era tanta umidità fuori.

    Nelle poche ore che precedevano l’alba riuscii a fargli mandar giù una quantità decente di latte. A un certo punto si addormentò, indebolito dalla febbre. Più la giornata avanzava, più mi convincevo che la miglior fortuna che potesse toccargli sarebbe stata quella di non nascere. Non solo stava soffrendo molto, ma era un mezzosangue, ali o meno. Non sarebbe mai stato davvero umano. Forse, prima o poi, la sua natura critch sarebbe venuta fuori. Non era colpa sua, ovvio, però nessuno poteva garantire che lui si integrasse nella civiltà di Burgue. Inoltre, il segreto della sua identità non era così difficile da scoprire: ero sicura che la visita accurata di un medico fosse in grado di portarlo alla luce. Il sangue dei critch è diverso da quello della razza umana.

    Secondo Morange bastava aver parlato col direttore dell’orfanotrofio: lui si sarebbe assicurato che filasse tutto liscio. Io non ero così ottimista. Purtroppo, a una vecchia ultrasettantenne non dava retta più nessuno! Gioventù ingrata…

    Decisi che, se non ci fossero stati miglioramenti, il giorno dopo avrei chiamato Morange. Non poteva pretendere di scaricare su di me l’intera responsabilità della situazione! Non avevo mai voluto essere coinvolta, questa era la verità. A tirarmi in mezzo era stato lui. Siccome ci legava un rapporto di amicizia e stima reciproca, non avevo avuto il cuore di rifiutare. Ero anche impietosita dalle condizioni del bambino: mezzosangue o no, piangeva nello stesso modo di un qualunque neonato umano! Era evidente che aveva bisogno di assistenza. Soltanto un essere senz’anima non se ne sarebbe accorto… e dato che la sua madre critch non si occupava di lui, ci avrebbe pensato la sottoscritta. Solo che, in un caso del genere, la mia esperienza non bastava.

    Restai in ansia per tutto il giorno, vegliando sul piccolo e dedicandomi a poche altre attività fondamentali, come cucinare e rigovernare. Provai a rammendare qualche paio di calze bucate, ma ero troppo distratta e l’età mi aveva tolto gran parte dell’abilità con l’ago, perciò rinunciai. A sera controllai per l’ennesima volta la temperatura del malato: era alta. Passai quindi un’altra notte insonne. Grazie al Martire, il giorno dopo riuscii a far venire Morange, che a suo dire aveva sempre avuto l’intenzione di tornare per una visita.

    Misurò la febbre, auscultò il cuore e valutò il ritmo della respirazione. Mi chiese quale aspetto avessero le ferite, poi le guardò lui stesso. Cambiò la medicazione e nutrì personalmente il bambino. Infine, mi piantò addosso due occhi tristi.

    «È molto provato» ammise. «Temo che potrebbe non sopravvivere.»

    Inarcai un sopracciglio. «Ah, davvero? Che sorpresa» fu il mio commento sarcastico.

    «Ambrosine, è stato un intervento delicato» si giustificò Morange.

    «Oh, lo so benissimo. Quello che non capisco è perché hai accettato di farlo.»

    «Era l’unica possibilità per dargli una vita normale.»

    «Non è uguale a noi» ribattei, schietta. «È una crudeltà dirlo così, tanto più che questo non dipende da lui, però sempre meglio riconoscere la verità che nascondere la testa sotto la sabbia.» Morange cercò di parlare, ma io fui più veloce. «Forse sua madre avrebbe dovuto allevarlo fra i critch» aggiunsi. «O evitare proprio di rimanere incinta. Se da un lato non possiamo abbandonarlo come lei, dall’altro non possiamo nemmeno illuderci. Guarirà? Non è da escludere, ma rimane un mezzosangue e dovrà pagarne il prezzo. Nella migliore delle ipotesi sarà costretto a nascondere la sua natura per tutta la vita. È questo che tu chiami “normale”?»

    Morange strinse le labbra e si girò in direzione del bambino. Quando si voltò di nuovo verso di me, il suo sguardo era risoluto. «Sempre meglio che essere ucciso, Ambrosine» replicò. «Hai idea di quello che succede ai mezzosangue qui a Burgue? Vengono ammazzati appena nascono, oppure muoiono dentro il ventre delle loro madri, forzate ad abortire. Ho sentito dei miei colleghi più anziani che ne discutevano. Se non l’ho raccontato alla mamma del bambino, è perché era già fin troppo sconvolta. Riguardo al resto… Crescerlo fra i critch, tu dici? Non lo vorrebbero neanche loro, un piccolo ibrido con due ali inservibili. Quella povera fata l’ha capito appena l’ha visto, che suo figlio non sarebbe stato in grado di volare. Ecco cos’ha l’ha spinta a darmi il consenso per l’operazione.»

    Aggrottai la fronte. «Aspetta, non è stata un’idea sua tagliare le ali?»

    «Certo che no! Anzi, all’inizio si è opposta con fervore. Ama molto suo figlio e non voleva causargli alcun male, per nessun motivo.»

    «Bah!» Feci una smorfia. «Convinto tu, che la conosci… Io non ne so abbastanza e avrei detto che è una svergognata imprudente.»

    Morange scosse la testa. «No, è solo una sventurata che si è trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ha le sue responsabilità per la gravidanza, non lo nego, ma se questa città fosse un posto migliore… be’, lei avrebbe ricevuto un po’ di comprensione e di aiuto in più.»

    Anche se la notizia delle uccisioni dei mezzosangue mi aveva scossa, non volli darlo a vedere. «Non esiste un posto migliore di Burgue per i critch» obiettai. «Non fra quelli dove vivono gli umani, almeno. Non so come funzionino le cose nella loro terra d’origine. Nemmeno m’interessa, a dire il vero. Ora, per piacere, mi spieghi che devo fare col bambino? Non c’è una medicina che possiamo dargli?»

    «No, purtroppo non dispongo di farmaci adatti ai neonati. Inoltre, non è detto che il suo organismo reagirebbe nella stessa maniera di un umano.»

    «Meraviglioso.» Alzai gli occhi al cielo, esasperata.

    «Non ci resta che avere fede» concluse Morange. «Bada a lui come hai fatto finora. Che il Martire ce la mandi buona.»

    Avrei voluto protestare, però mi resi conto che era inutile. Ormai rassegnata a seguire le direttive ricevute, lasciai il comando della situazione a Morange fino a metà pomeriggio. Quando se ne andò, mi misi all’opera senza lamentarmi: ripetei più o meno le stesse azioni dei giorni precedenti… e sperai. Non avevo scelta.

    La notte passò, lenta e penosa. Il bambino sembrava aver esaurito anche la forza di piangere. Quasi quasi mi mancavano le sue grida, perché almeno dimostravano che gli era rimasto un minimo di energia. Gli raffreddai la fronte bollente e cambiai perfino la federa del cuscino dentro la cesta, scegliendone una fresca di bucato.

    All’alba, mentre un po’ di luce iniziava a entrare dagli scuri, scoprii che era successo il miracolo: la febbre era calata. Con sollievo, mi affrettai a togliere al bambino la camicia da notte coperta di sudore. Forse era stato abbastanza fortunato da scampare al peggio.

    Continuai a tenerlo d’occhio, ma le sue condizioni rimasero stabili. Lasciandolo ben coperto dal pezzo di lenzuolo e dallo scialle, aprii per metà un’anta della finestra. Quando mi parve di aver arieggiato la stanza a sufficienza, chiusi l’anta e andai a scaldare il biberon.

    «Te la sei cavata, eh?» dissi al bambino. La sua pelle era asciutta e tiepida, il rossore molto diminuito. «Buon per te. Anche per me, tutto sommato: sono contenta che tu stia meglio.»

    Lo ero davvero. Presto avrei avuto un impegno in più all’orfanotrofio, però non mi dispiaceva. La vita deve prevalere sulla morte, specie se chi è coinvolto non è che una vittima delle circostanze.

    Chiacchierai ad alta voce fino a far addormentare il bambino. Non doveva aver capito granché di quello che gli avevo detto, ma per me non era un problema. Lo lasciai al suo riposo e riuscii finalmente a godere del mio. Quando mi svegliai, lui dormiva ancora, con una faccia molto più rilassata di quella che gli avevo visto sempre. Mormorai una preghiera di ringraziamento.

    Si trattenne a casa mia per qualche altro giorno. Morange tornò a visitarlo e rimase soddisfatto: pian piano le ferite si sarebbero rimarginate. L’affidamento all’orfanotrofio avvenne senza incidenti.

    Da quel momento fui io a vegliare sul piccolo mezzosangue. Mi assicurai di essere l’unica a lavarlo e a cambiargli il pannolino, in modo che nessun inserviente della Luce del Martire vedesse le cicatrici sulla sua schiena. Appena sarebbe stato abbastanza grande, il direttore gli avrebbe raccontato la verità, cosicché lui stesso potesse custodire il suo segreto.

    Crescendo divenne molto tranquillo. Questo mi levava un peso dallo stomaco: sarebbe stato più facile insegnargli a tenere la bocca chiusa, indurlo alla ragionevolezza… proteggerlo.

    Ero legata a lui, dovevo ammetterlo. In silenzio, quasi senza che me ne accorgessi, aveva conquistato il mio affetto. Forse perché gli ero stata accanto quand’era malato, accudendolo per quelle lunghe ore interminabili, forse perché dimostrava di avere un buon carattere… Fatto sta che mi preoccupavo per il suo futuro. Volevo che lui fosse felice, o comunque a suo agio. Inoltre, non essere presente durante le fasi importanti della sua crescita mi intristiva. Avrei desiderato fermare la mia vecchiaia! Chissà se, dopo la mia morte, si sarebbe ricordato di me? Mi auguravo di arrivare a vedere almeno il suo quinto compleanno…

    Inutile girarci intorno: non riuscivo più a pensare a lui come a un mezzo critch, anche se lo era. Aveva raggiunto la stessa posizione di tanti altri bambini di cui mi ero presa cura all’orfanotrofio: il centro del mio cuore.

    ~*~*~*~

    Glossario

    Il Martire: la figura più importante della religione degli umani


    ~*~*~*~



    Suggerimento di Rue Ryuzaki : se a qualcuno può interessare, la mia fanfiction breve “Sangue di fata” mostra come il protagonista ha saputo di essere un mezzosangue (in una situazione immaginata dalla sottoscritta :D )

    Trovate la fanfiction in questione al seguente link:

    Sangue di fata

    Edited by Elizabeth Swann - 7/7/2023, 14:38
     
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    Buonasera!
    Anche se per ora questa mia fanfiction non sta destando molto interesse, proseguo lo stesso con la pubblicazione e vi propongo il quarto capitolo. Spero che prima o poi qualcuno ci darà un’occhiata :)
    Una piccola dritta: chi non conosce la serie e ha difficoltà con certi nomi può consultare il mini-glossario collocato alla fine del capitolo; desidero fortemente che la storia risulti comprensibile e non troppo complicata da leggere. Sotto il glossario, invece, troverete una sorpresina, nascosta dal tag spoiler. Inutile dire che vi raccomando di “aprirla” al termine della lettura :)
    Un saluto a tutti!


    Capitolo Quarto
    IPkOC7D
    JTYKCG3


    Il dottor Morange non volle mai svelarmi dove mio figlio trascorse il periodo fra l’operazione e l’entrata all’orfanotrofio. Prevedeva che mi sarei precipitata sul posto, ovunque esso si trovasse, peggiorando così la situazione. Mi diede solo la possibilità di un ultimo incontro, durante il quale feci lasciare al mio piccolino le impronte delle sue manine sopra una tela, che contavo di appendere in camera e su cui in precedenza avevo realizzato lo schizzo di due minuscole ali. Passato il momento, mi sarebbe toccato rassegnarmi, rinunciando a qualsiasi forma di contatto con il bimbo che, malgrado avessi portato in grembo e partorito, non meritavo più di considerare carne della mia carne.

    Non ne fui capace.

    Dapprincipio riuscii a tenermi lontana da lui lavorando giorno e notte. Ero fuori esercizio per via della gravidanza, eppure recuperai piuttosto in fretta: la mia nuova canzone fu un successo. Resistetti per circa un anno e mezzo, poi iniziai a recarmi di nascosto all’orfanotrofio nei ritagli di tempo. Non volevo essere vista e, dato che una notte rischiai di farmi scoprire da un’inserviente, decisi di non tornare… ma alla fine ricominciai le intrusioni.

    Non scoprii subito dov’era sistemato il bambino; non avevo nemmeno idea di quale nome gli fosse stato messo! La prima volta che riuscii a scorgerlo, però, provai una gioia immensa. Purtroppo, durò poco e fu seguita da una fitta dolorosa al petto. Col trascorrere dei mesi, mi resi conto che non potevo andare avanti in quel modo e tentai d’interrompere le visite.

    Mi gettai nel lavoro, benché il fuoco dell’arte si stesse lentamente spegnendo dentro di me. I miei spettacoli riscuotevano sempre meno entusiasmo e inventare altre canzoni stava diventando un’impresa. Mi assalì il timore che la mia carriera fosse giunta al capolinea. Se non fosse stato per il mio vecchio amico Runyan, sarei crollata.

    Era il primo umano con cui avessi stretto un legame, per merito della sua indole loquace e simpatica. Dato che si esibiva come attore a Burgue, mi conosceva sin dai tempi in cui non ero famosa, quando ancora cantavo in un piccolo caffè sulla Row. Appena avevo saputo di essere incinta, mi ero tenuta alla larga da lui per paura di confessargli tutto, ma ci eravamo ritrovati circa un mese dopo il parto. Avevo mantenuto il mio segreto, seppur con difficoltà, e non mi ero mai avventurata nel racconto della genesi della mia ultima canzone di successo. Runyan nutriva dei sospetti sulla mia “sparizione”, lo intuivo; ciononostante, non li tradusse mai in parole davanti a me. Si limitò a confortarmi ogniqualvolta si rendeva conto che ero triste, a incoraggiarmi nella stesura dei miei testi e ad assistere agli sfoggi – sempre meno apprezzabili e ispirati – delle mie doti canore.

    Nel periodo in cui il lavoro mi diede meno soddisfazioni, ripresi le mie visite clandestine alla Luce del Martire. Erano trascorsi anni dall’ultima volta che ero stata lì, ma i miei pensieri non si allontanavano mai a lungo da quell’antico edificio dall’aria malinconica, in cui dimorava colui che era stato il piccolo uragano nella mia pancia, il mio tesoro, la mia meraviglia… mio figlio. Sì, lo consideravo ancora tale.

    Era cresciuto e mi ricordava un po’ suo padre, sebbene avesse ereditato da me il colore dei capelli e il suo viso fosse troppo paffuto per somigliare a quello di Absalom. Era un bravo scolaro, per quanto ero riuscita a capire, solo che aveva un carattere riservato e arrendevole, perciò temevo che venisse preso di mira dai compagni più dispettosi o prepotenti. Inoltre, capitava che avesse degli incubi notturni, i quali lo lasciavano molto inquieto. Me ne accorgevo dalle ombre sotto i suoi occhi e dai suoi movimenti nervosi, quando gli capitava di trovarsi nei pressi di una finestra e io ero nascosta dietro la parete esterna, per osservarlo senza essere vista.

    Mi costrinsi a stargli lontana per qualche altro anno, affliggendomi la metà del tempo e impiegando l’altra metà ad arrabattarmi per risollevare la mia situazione economica. Avevo l’impressione che Burgue diventasse più cupa di mese in mese, che non fosse più in grado di dare spazio all’arte, alla bellezza o alla cultura. Ciò contribuiva ad avvilirmi. In quegli anni non avevo creato più nulla che fosse degno di nota, a eccezione di una ninna nanna segreta – ispirata alla canzone composta a Villa Spurnrose – in cui mi rivolgevo direttamente a mio figlio, pur senza pronunciare il nome che gli era stato dato all’orfanotrofio. In effetti, non lo sentivo abbastanza suo, quel nome. Cosa potevo pretendere, d’altronde? Non avevo più il diritto di ritenermi sua madre. Lo amavo, ma non mi ero presa cura di lui come dovevo.

    La notte del suo ottavo compleanno m’intrufolai nel suo dormitorio e provai a cantargli la ninna nanna. Lui era già immerso in un sonno profondo, infagottato nel pigiama stinto dell’orfanotrofio. Vincendo l’impulso di stringerlo fra le braccia, mi librai sopra il suo letto e intonai la canzone con un filo di voce:

    «I’ll fly for you,
    my child, my son,
    sweet dreams to you,
    my only one
    …»

    Credetti che sarebbe stata la prima volta che avrei corso un rischio del genere. Cosa sarebbe successo se qualcuno mi avesse scoperta, o se si fosse svegliato proprio il destinatario delle mie attenzioni? Ero un’estranea per lui: come avrei giustificato la mia presenza lì? La notte successiva, invece, contro ogni parvenza di buonsenso, ebbi l’ardire di tornare. Cantai di nuovo e osai perfino avvicinarmi di più al letto.

    Da allora entrai nel dormitorio altre tre volte. Sempre alla stessa ora, tramite la finestra della stanza. La terza volta – ovvero la quinta in totale – arrivai al punto di accostarmi al viso di mio figlio e sfiorargli appena il capo. Portava i capelli molto corti, al pari degli altri bambini della Luce del Martire, dunque era impossibile giudicare se fossero ricci come i miei oppure lisci… Tuttavia, non mi soffermai a guardarlo, poiché un sesto senso mi avvertì che lui stava per aprire gli occhi. Volai via senza esitare, il mio cuore che batteva tumultuoso contro le costole.

    Ero intenzionata a ripetere il tentativo – volevo così disperatamente regalare una carezza al mio bimbo! – quando le mie intrusioni cessarono di esser note solo a me.

    Una mattina Costin Finch in persona si presentò a casa mia, per parlarmi in privato. Disse di avermi vista uscire dal dormitorio e mi pregò di non andarci più. Non usò mai parole dure, anzi, fu mite e comprensivo, ma la sua richiesta fu inequivocabile.

    «Non puoi continuare così, Aisling» mi ammonì con gentilezza. Eravamo seduti al mio tavolino preferito, l’uno di fronte all’altra. «Ti distruggerai. Devi chiudere questo capitolo e andare avanti con la tua vita.»

    «E cos’è rimasto della mia vita?» esclamai. «Nemmeno l’arte riesce più a darvi un senso. Provo a cantare, a fare tutto ciò che ho sempre fatto, eppure non dono più gioia a nessuno, tanto meno a me stessa.»

    «Hai avuto un momento difficile, lo sa il Martire! Ciononostante, non devi arrenderti. Puoi ancora dedicarti alla tua musica, devi solo imparare ad avere di nuovo fiducia nelle tue capacità» rispose Costin. «Il tuo amico Runyan può aiutarti – mi hai parlato tanto bene di lui! Perché non date qualche spettacolo carino insieme?»

    «È una bella idea» ammisi. «Anche se Runyan si convincerebbe di sfigurare al mio fianco.»

    «Be’, non avrà la voce di un angelo come te, però non gli mancheranno altri talenti, suppongo.»

    Feci un sorriso triste. «Sì, eccome.»

    Costin mi strinse la mano con affetto. «Concentrati su di te, sulle tue priorità. Al tuo bambino provvedo io. Credimi, all’orfanotrofio non gli manca nulla: diventerà un uomo saggio, onesto e rispettabile.»

    Non replicai.

    «Lascialo andare, Aisling» mi esortò lui. «È per il bene di entrambi. Non ti sarà di alcuna utilità scavare in eterno dentro questa ferita.»

    «Non posso lasciarlo» dissi, affranta. «Ho tentato, in questi anni… Non ce la faccio.»

    «Devi.»

    «Lo sogno, sai.» Mi uscì un tono esile, quasi inudibile. «L’ho sognato tante volte, da quando è nato. Lo sento piangere – sento le sue urla e i suoi singhiozzi di dolore, mentre… mentre…» Non ebbi la forza di finire: avevo le lacrime agli occhi. Costin mi guardava e sembrava sul punto di scoppiare in pianto anche lui.

    «Malgrado tutto il male che gli ho inflitto» continuai, passandomi il dorso della mano sulle palpebre umide, «resto legata a quel bambino. Lo considero mio figlio. Capisco che non sono più sua madre…»

    «No» m’interruppe il direttore della Luce del Martire. «Certo che lo sei. Lo hai messo al mondo. Certo che sei sua madre.»

    Osservai i suoi occhi lucidi, le labbra serrate, l’accenno di stempiatura. Scossi la testa. «Non basta partorire per essere una madre. Ho abbandonato mio figlio e l’ho fatto mutilare… Quale mamma commetterebbe due azioni così riprovevoli?»

    «Non è stata una mutilazione…»

    «Lo pensi davvero? Solo perché quelle ali non avrebbero mai volato?» Serrai i pugni sulle ginocchia. «Come vorrei averlo tenuto con me, Costin» confessai, sentendomi tanto esausta quanto amareggiata. «Come vorrei che fosse stato possibile.»

    Lui si alzò in piedi e mi prese di nuovo la mano. «Lo riconosci tu stessa, non era possibile. Non dovresti rimproverarti in questa maniera.» Infilò due dita nella tasca del gilet e mi porse un fazzoletto immacolato. «Rycroft è al sicuro» dichiarò. Non risparmiai una leggera smorfia al suono di quel nome, ma Costin finse di non vederla, perché proseguì come se nulla fosse: «È un ragazzino in gamba, di buon animo e anche parecchio sveglio, che ha capito subito l’importanza di tenere nascoste le sue origini. Non è mica una cosa da tutti.»

    «Quando gliene hai parlato?» domandai. L’idea che quel fardello venisse deposto su spalle così giovani mi provocò un brivido lungo la spina dorsale.

    «All’incirca un anno fa, ma gli avevo già raccomandato tempo prima di non mostrare a nessuno le cicatrici che ha sulla schiena.»

    «E ti ha ascoltato?»

    Costin annuì. «È molto assennato, sai. Non gli serve essere riportato nel passato, ha bisogno di guardare al futuro. Permettigli di compiere questo passo definitivo. Abbi il coraggio di dirgli addio, altrimenti i sacrifici fatti finora rischierebbero di diventare vani. Di sicuro non vorresti che una notte si accorgesse della tua presenza, chiedendo spiegazioni…»

    Fissai la tela rotonda appesa alla parete, che recava le tracce lasciate dalle mani di mio figlio neonato. Era coperta da una sottile lastra di vetro e abbellita da una cornice di legno chiaro. Tutto ciò che restava delle ali del mio bimbo era lì: un semplice schizzo da me tracciato, sopra le sue piccole impronte. Ormai quel bambino – Rycroft Philostrate, com’era stato registrato all'orfanotrofio – aveva otto anni e non apparteneva all’universo dei fatati, né vi sarebbe mai appartenuto. Non in quella vita, perlomeno. Stava crescendo tra gli umani – e da umano sarebbe andato avanti. L’ultima cosa di cui aveva bisogno era un intralcio lungo il suo cammino.

    Costin attese con pazienza che la mia attenzione tornasse a concentrarsi su di lui. Quando mi voltai nella sua direzione mi sorrise, solidale e incoraggiante.

    «Promettimi che lo proteggerai» fu la mia unica frase.

    «È quello che ho provato a fare in questi anni. Non verrò meno al mio compito proprio adesso» garantì Costin con calore.

    Stavolta fui io a cercare la sua mano. «Grazie.»

    «Che la luce benedetta del Martire ti accompagni sempre» mi disse.

    Ricambiai il suo sorriso, anche se con molta fatica, le lacrime che ancora mi inumidivano gli occhi. «E che Titania sia con te» risposi. Quelli erano i nostri saluti tipici. Avevamo discusso spesso di religione, prima che lui prendesse i voti; alla fine ognuno era rimasto sulle sue posizioni, ma questo non aveva impedito che ci volessimo bene e ci rispettassimo a vicenda.

    Nessun giuramento mi legava alla scelta di non tornare più alla Luce del Martire, però ero determinata a onorare l’impegno preso, anche se con la morte nel cuore. Fu una delle prove più dure della mia esistenza: per circa due decenni rinunciai ad avvicinarmi a mio figlio, sebbene all’inizio chiedessi sue notizie a Costin, le rare volte che avevamo occasione d’incontrarci. Nel frattempo, la mia carriera non riprese a decollare; anzi, finì col naufragare e mi portò a condurre un’esistenza sempre più ritirata. Mi esibivo in locali modesti e poco frequentati, non più di tre o quattro volte all’anno, e uscivo di casa molto di rado, principalmente per cercare qualcuno a cui vendere i miei abiti migliori e racimolare qualche altro soldo.

    Feci un’unica eccezione al divieto che mi ero imposta: il giorno in cui mio figlio lasciò l’orfanotrofio. Costin mi aveva avvisata, dicendo che stava a me scegliere se vedere o no “il giovane Rycroft”, come lo chiamava lui. Il mio amico doveva essere convinto che il trascorrere degli anni avesse guarito le vecchie ferite, forse era anche un po’ orgoglioso del mio comportamento, perciò credeva che sarei stata in grado di guardare da lontano, tranquillizzarmi e augurare ogni bene a mio figlio tra me e me, senza essere notata.

    Mi nascosi dietro il pilastro di un ponte e attesi che il portone dell’orfanotrofio si aprisse, ansiosa di vedere quanto fosse cambiato quello che una volta era il mio bimbo. Per tutto il tempo in cui lui rimase vicino alla soglia d’ingresso, lo seguii con lo sguardo. Aveva lo stesso taglio di capelli di quand’era ragazzino, ma le somiglianze finivano lì: vestito di scuro, era alto e sottile, con lunghe gambe seminascoste dal cappotto. Sembrava alquanto educato, composto e controllato, poco avvezzo a esprimere le emozioni, perfino mentre si fermava a salutare alcuni compagni, presumibilmente più giovani di lui. Mi parve così estraneo che lo stupore eclissò la nostalgia e lo struggimento, anche solo per brevi istanti: si trattava davvero di mio figlio? Quel ragazzo compìto era lo stesso bambino che aveva scalciato nel mio ventre e visto la luce per la prima volta a Villa Spurnrose?

    Preda di emozioni contrastanti, non riuscii a fargli alcun buon augurio, né col pensiero né parlando sottovoce. Restai come pietrificata, lacerata dall’interno da un inesorabile senso di perdita.

    Più in là venni a sapere che mio figlio aveva scelto la carriera militare e mi preoccupai, poiché negli ultimi anni era divenuto chiaro che il Patto aumentava sempre di più la sua morsa d’acciaio sulla mia terra natìa. Presto o tardi anche la Repubblica di Burgue avrebbe avuto un ruolo in tutto questo. Se solo avessi potuto essere utile alla mia gente! Ma ormai ero una fata di mezza età – e non è che in passato avessi imparato a combattere. Quando fu evidente che i soldati di Burgue sarebbero partiti per la guerra, nel tentativo di opporsi alle forze del Patto, provai paura e sgomento. Da un lato ero fiera che mio figlio avesse deciso di schierarsi contro gli oppressori del mio popolo, dall’altro temevo per la sua sicurezza. Non volevo che lui si ferisse o si trovasse in qualche pericolo mortale. Giurai che avrei pregato, che mi sarei recata ogni giorno al santuario di Mima Sawsaan ad accendere una candela, eppure ciò non bastò a quietare la mia apprensione. Alla fine compresi che non avrei avuto pace se non fossi andata da lui, per rivederlo prima della partenza.

    Riuscii a scoprire in quale locanda alloggiasse, insieme con alcuni suoi compagni di reggimento, e lo raggiunsi di soppiatto. Ripetei a me stessa che ero forte abbastanza, ormai preparata alla sensazione di dolorosa estraneità che avrei provato; mi dissi che lui non si sarebbe accorto di me in nessun caso e che era giusto così. Entrai dunque dalla finestra della sua stanza e lo cercai, alla luce fioca di una candela consumata, che stava spegnendosi sopra il comodino.

    Lui era sdraiato sulla schiena, con le coperte che gli arrivavano sino al collo, poiché fuori faceva un gran freddo e l’aria era gelida come una lama di ghiaccio. La sua testa era reclinata di lato, il braccio sinistro nascosto sotto il cuscino. Il suo sonno pareva pacifico, la respirazione era uniforme, i lineamenti distesi. Mi sentii sollevata, poiché dava l’impressione che il destino fosse stato benigno nei suoi confronti: sul viso non comparivano segni di disagio o di patimento. Mi domandai se desse la medesima impressione nei momenti di veglia, perlomeno in assenza di eventi forieri di turbamento o angoscia.

    Per non creare spostamenti d’aria con le ali, atterrai con estrema cautela accanto al materasso. Contemplai di nuovo il volto addormentato. Quell’uomo non mi conosceva, né io conoscevo lui… ma era comunque mio figlio. Nonostante mi apparisse diverso, anche rispetto al giorno in cui avevo potuto guardarlo da dietro il pilastro del ponte, non riuscivo a negare il nostro legame. Quello di sangue, perlomeno…

    Era strano quanto in fretta lui fosse cresciuto. D’altra parte, il suo sviluppo era stato più rapido di quello di un fatato, molto simile a quello di un umano. Un invecchiamento che sarebbe parso precoce alla mia gente aveva contribuito alla sua integrazione a Burgue. Ne fui grata.

    All’uscita dall’orfanotrofio era stato appena maggiorenne per i parametri di riferimento umani. Adesso si affacciava alla soglia dei trent’anni, quindi era più che maturo; a differenza dell’ultima volta, aveva folti baffi e una barba corta e curata. Quanto ai capelli, gli si erano allungati fin sotto le orecchie. Non erano ricci, ma neppure lisci: scendevano in dolci onde attorno al suo viso – bello e fine, con la mascella volitiva, ormai privo di qualsiasi rotondità infantile – e ne esaltavano i contorni. Nel complesso somigliava più ad Absalom che a me, eppure non si trattava di una di quelle somiglianze palesi, che saltano all’occhio. Inoltre, riconoscevo qualcosa dei miei tratti nell’arco della fronte, nelle sopracciglia scure e dritte, forse anche nel profilo regolare del mento.

    Non era facile riconciliare l’immagine di quell'uomo adulto con il bambino dei miei ricordi, ma l’amore che avevo sempre nutrito per lui mi riempiva l’anima. No, era come se non fosse cambiato nulla, in fondo. Gli augurai buona fortuna, raccomandando la sua anima a Santa Titania e sperando con tutta me stessa che sopravvivesse alla guerra. Era il massimo che mi fosse concesso.

    Mandandogli un bacio sulla punta delle dita, indietreggiai verso la finestra, pronta ad alzarmi in volo. In quell’istante lui voltò il capo nella mia direzione. La fiamma della candela si estinse in un ultimo guizzo.

    Rimasi immobile con il cuore in gola, temendo un improvviso risveglio. Il ritmo del suo respiro mi confermò che lui stava ancora dormendo; si era trattato solo di un cambio di posizione. In ogni caso, lo interpretai come un segnale per andarmene.

    Non gli avevo mai detto addio a parole, tanto meno arrivederci. Non volli farlo nemmeno in quel caso.

    «Stai attento, tesoro mio.» La mia voce non fu che un soffio leggero, simile al battito delle sue ali perdute. M’interruppi e aggiunsi esitante: «Abbi cura di te… Philo.»

    Sapevo che gli amici lo chiamavano così: me l’aveva rivelato Costin. Era un nome che mi suonava estraneo quanto “Rycroft”, ma ero disposta a usarlo se a mio figlio piaceva. Mi sforzavo di considerarlo un simbolo della sua identità di umano, della realtà di cui lui era riuscito a far parte.

    Lasciai la camera subito dopo, rapida e silenziosa com’ero entrata. Qualunque cosa fosse accaduta, avrei ricordato mio figlio così: sereno, sano, al sicuro, e vivo… fino al momento di ricongiungermi a lui, in un futuro lontano, nel luogo dove non c’è più sofferenza.

    ~*~*~*~

    Glossario

    La Row: abbreviazione di “Carnival Row”, ovvero quel quartiere di Burgue in cui vive la maggior parte dei fatati

    Titania: una figura importante del culto delle fate, che probabilmente hanno una religione politeista, mentre nella società degli umani è diffusa la devozione al Martire (vedi glossario del capitolo precedente)

    Il Patto: alleanza di umani che, rispetto alla Repubblica di Burgue, porta avanti delle politiche più aggressivamente imperialiste contro i fatati; mira, infatti, a sottometterli e a conquistare la maggior parte delle loro terre natali



    La fata inquadrata da vicino al minuto 1.06 è un personaggio femminile che comparirà nella mia storia fra breve ;) Ovviamente non si tratta di Aisling, che invece vediamo cantare la sua ninna nanna, librandosi sopra il letto del protagonista quando lui è bambino.



    Edited by Elizabeth Swann - 7/7/2023, 14:37
     
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    Giusto una piccola precisazione, prima di lasciarvi alla lettura: la parte finale del capitolo precedente, quella in cui la mamma del protagonista va a trovarlo di nascosto alla locanda, a livello temporale è ambientata dopo questo quinto capitolo. Ciò si deve al fatto che la narrazione, nel capitolo precedente, copre circa trent’anni (dall’entrata del protagonista all’orfanotrofio fino alla vigilia della sua partenza per la guerra). Il capitolo che adesso leggerete, invece, è ambientato quando il protagonista è maggiorenne da poco, ha lasciato l’orfanotrofio e sta per cominciare la sua carriera militare; perciò la guerra arriverà qualche anno più in là.


    Capitolo Quinto
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    «Dormi?» chiesi a Philo.

    Lui borbottò qualcosa che non capii.

    «Come hai detto?»

    Aprì gli occhi e alzò un po’ di più la voce, parlando in modo chiaro: «Quasi.»

    «Peccato, ti preferivo completamente sveglio» risposi.

    «È notte fonda, Lorraine. E qualcuno potrebbe sentirci.»

    Con “qualcuno” si riferiva ai miei genitori. Aveva ragione, ovvio, ma gli misi il broncio. «Te ne vai» dissi, immusonita. «Che faccio ora che te ne vai?»

    «Mica parto domani» obiettò Philo. Gli scappò uno sbadiglio. «Abbiamo tempo.»

    «Solo una settimana, sai che bello.»

    Lui si alzò a sedere e il lenzuolo scivolò giù, mostrando il suo corpo snello. «Dai, ti prometto che tornerò a salutarti. Come si deve» aggiunse quando vide che stavo per ribattere.

    Mi sedetti anch’io e incrociai le braccia. «Sei proprio sicuro di voler andare? Sicuro sicuro?»

    Philo fece segno di sì.

    «Tutto il giorno in compagnia di maschi. Armi, esercitazioni, gente che grida ordini… Che ci trovi in una vita del genere?» Il suo interesse per la carriera militare era un mistero per me, esattamente come la sua strana passione per le altezze. L’unica cosa che capivo un po’ meglio di lui era il pallino della letteratura, solo che, avendo studiato poco, non potevo condividerlo fino in fondo. «Io mi ucciderei alla prima pausa pranzo» continuai.

    Philo scosse la testa e sorrise di fronte alle mie smorfie.

    «Be’, che c’è? Secondo te scherzo?»

    «No, drammatizzi soltanto» precisò lui, prendendo la mia mano. «Comunque, la compagnia maschile non sarà un problema per me. Credi che all’orfanotrofio abbia diviso i miei spazi con delle ragazze?»

    «Chi se importa? Ormai sei fuori di lì e sai cosa significa stare con una donna» dissi, infastidita. Non mi era mai piaciuto pensare a quell’orfanotrofio, perché non sopportavo che i genitori di Philo l’avessero abbandonato per fare chissà quale fine. Nessuno aveva idea di come si chiamassero, se fossero vivi o morti… Nemmeno Philo stesso.

    Lui mi accarezzò il polso. «Parla piano, per favore. Mi rendo conto che ti mancherò e anche tu mi mancherai, ma questo è il percorso che ho scelto. Non tornerò indietro.»

    Restai in silenzio a guardare i suoi begli occhi marroni.

    «Adesso, se non ti spiace, preferirei dormire. Domattina devo andarmene all’alba, se non vogliamo che tuo padre ci scopra.»

    Avevo immaginato una notte insieme molto più lunga, avevo immaginato di parlare fino a tardi… Purtroppo, Philo non si sbagliava su mio padre. Era meglio essere prudenti e non correre rischi.

    «D'accordo» mormorai.

    Lui mi diede un bacio veloce sulla guancia. «Buonanotte» disse, prima di sdraiarsi e coprirsi. Non parlò più e poco dopo si addormentò. Del resto, per quel che lo conoscevo, non era mai stato un chiacchierone, tranne se si trattava dei suoi libri.

    Per me non era così semplice prendere sonno. Soffiai sulla candela vicino al letto e rimasi a fissare l’oscurità. Non mi andava di fare la parte della ragazzina sentimentale, ma la verità era che tenevo un sacco a Philo. Il nostro incontro casuale al pub dove lavoravo era stato una benedizione. Ovvio, all’inizio nessuno dei due aveva avuto vita facile: lui era riservato e io mi fidavo poco degli uomini. Diciamo che ero combattuta, perché da una parte avrei voluto innamorarmi, perfino vivere qualche esperienza con qualcuno… Dall’altra, invece, avevo paura di “impegnarmi”, di finire in situazioni troppo grandi per me, di soffrire. Alla fine, però, ero rimasta conquistata da Philo e lui mi aveva regalato emozioni stupende.

    Gli volevo bene come a un caro amico, per la sua intelligenza, la sua buona educazione, il rispetto che mostrava a tutti. I suoi unici difetti erano la timidezza e la tendenza a farsi prendere la mano quando parlava delle sue passioni. Mi piaceva ascoltarlo, ma in certi momenti avevo la sensazione che la sua testa fosse tra le nuvole, a forza di leggere quei romanzi di fantascienza e di avventura! Comunque, mi ero abituata col tempo a questi lati della sua personalità. Fra l’altro, con me non era più tanto timido… almeno sotto le lenzuola!

    La nostra prima volta, quella sì che era stata un’impresa. Il bello era che nessuno di noi due aveva pianificato niente, anche se in un’altra occasione c’eravamo già baciati in segreto sulla bocca. La scintilla definitiva era scoccata mentre lui, da bravo gentiluomo, mi accompagnava a un negozio di fiori lontano dalle strade principali.

    Passando per una zona poco frequentata della campagna di Burgue, avevamo visto un mulino ad acqua che non funzionava più. Con la scusa di entrare per sbirciare dentro, eravamo praticamente finiti l’uno addosso all’altro, baciandoci e stringendoci. Sembravamo quasi posseduti da un demone! Forse ci piacevamo dal nostro incontro al pub e non l’avevamo capito. Di sicuro eravamo tutti e due inesperti, maldestri e rossi in faccia. In qualche modo, solo il Martire sa come, ce l’eravamo cavata: sarà che ci desideravamo, sarà che ci trovavamo pure molto simpatici, sarà che eravamo impazienti di sperimentare quel qualcosa di cui nessuno parla, anche se prima o poi frulla nella testa di chiunque… Il risultato fu che entrammo vergini in quel mulino abbandonato e, quando uscimmo, non lo eravamo più.

    Ne ero felicissima, solo che provavo un senso di colpa enorme. Aver disubbidito ai miei genitori mi faceva tremare e il pensiero che loro scoprissero tutto… be’, mi terrorizzava. Ero soltanto una cameriera e non venivo da una famiglia ricca, però mia madre e mio padre si aspettavano lo stesso di farmi sposare un partito decente. Inoltre, davano per scontato che la mia reputazione sarebbe rimasta impeccabile fino al matrimonio. Se avessero saputo che avevo perso la verginità con un ragazzo qualunque, orfano e giovane quasi quanto me, apriti Cielo! Mio padre mi avrebbe picchiata e mia madre segregata in casa per mesi.

    Con Philo avevo tenuto la bocca chiusa su questo. Sapeva che i miei genitori non sarebbero mai stati contenti del nostro rapporto, ma non gli avevo spiegato quant’erano severi, per paura che lui si allontanasse da me. Al suo posto sarebbe stato naturale spaventarsi: non era che un ragazzo, mica un uomo grande e grosso come mio padre! Non aveva nemmeno dei muscoli molto sviluppati, anzi, era un po’ magrolino. Una volta mi aveva detto di essere bravo coi pugni, ma non ero convinta che fosse la verità. Anche se Philo era un tipo sincero, non potevo escludere che ogni tanto cercasse di vantarsi raccontando balle, come avevo visto fare ad altri maschi.

    Per la verità mi chiedevo spesso se sospettasse di cos’erano capaci i miei genitori. Era sempre molto prudente: avevo dovuto pregarlo per settimane prima che si decidesse a entrare di nascosto nella mia stanza! E avrei scommesso il mio nastro per capelli più nuovo che, senza la sua partenza di mezzo, non sarebbe venuto.

    Perché aveva intenzione di diventare un soldato? Me lo domandai per l’ennesima volta nel buio della mia camera, mentre ascoltavo il suo respiro tranquillo. Non era il tipo da entusiasmarsi durante le risse, o all’idea di imparare a sparare e roba del genere… Al contrario, avevo sempre avuto l’impressione che la violenza non gli andasse molto giù. Cosa lo spingeva ad arruolarsi? E poi, se la Repubblica di Burgue fosse entrata in guerra, lui avrebbe rischiato di morire! Non se ne rendeva conto?

    Non volevo che si facesse male. Avrei preferito di gran lunga vederlo cambiare idea, rinunciando per sempre all’addestramento. Purtroppo, era difficile che succedesse. Quando Philo si metteva in testa un obiettivo, si impegnava per raggiungerlo. Non avevo speranze di convincerlo a restare.

    D’altra parte, era della sua vita che si trattava, non della mia. Perché non potevo lasciarlo andare? Mi piaceva moltissimo ed era un bravo ragazzo, ma avevo già stabilito di non innamorarmi di lui. Sarebbe stato troppo complicato. Fra qualche anno, quando sarei stata pronta, forse avrei trovato un pretendente e progettato un matrimonio vantaggioso… Al momento no, per nessun motivo. Finché potevo, volevo conservare un minimo d’indipendenza.

    Insomma, dovevo badare solo a me stessa e smettere di far pesare a Philo le sue scelte. Lui non si era mai permesso di farmi pesare le mie, no? Perché avrei dovuto sbagliare così? La paura di perderlo non giustificava quel comportamento.

    Ripetendomi di continuo di essere ragionevole, finalmente mi addormentai. Quando aprii gli occhi, Philo mi dava le spalle: si era girato durante la notte. Dalla piccola finestra della stanza veniva una luce molto debole, quindi l’alba era vicina.

    Philo stava sognando qualcosa, a giudicare dal modo in cui si muoveva. Avrei potuto dargli una scrollatina, invece mi avvicinai e allungai il braccio sul lenzuolo che gli copriva il fianco. Posai la faccia sulla sua schiena nuda, annusando la sua pelle e stringendomi a lui. Speravo di offrirgli un risveglio dolce…

    Contro tutte le mie previsioni, appena il mio naso sfiorò la cicatrice sulla sua scapola, Philo saltò su come se l’avesse punto una vespa. Cercò addirittura di spingermi via. Fui costretta a tappargli la bocca perché non gridasse.

    Per fortuna, si rilassò in fretta. Ritirai la mano e dissi a bassa voce: «Scusami, non pensavo di farti quest’effetto.» Ero sorpresa e delusa dal fallimento del mio piano: a Philo piacevano così poco i miei abbracci?

    «No, sono io che ti chiedo scusa per aver reagito in modo strano. È solo che mi hai preso alla sprovvista» rispose lui. Non parlò per qualche minuto, forse per controllare che la casa fosse abbastanza silenziosa. «Penso che tu mi abbia solleticato la schiena» aggiunse. «Non so, credo con i tuoi capelli…»

    «Perché, soffri il solletico?» chiesi, sorpresa. «Non mi è mai parso. Di sicuro non me l’avevi detto.»

    Alzò le spalle. «L’avrò dimenticato.» Attento a non far rumore, si tirò su per cercare i suoi vestiti. Confusa, seguii i suoi movimenti con lo sguardo. Ricordavo di avergli toccato la schiena varie volte, da quando andavamo a letto insieme. Be’, per la verità non stavamo a letto nel vero senso della parola, perché le nostre “attività” si svolgevano sempre in altri posti, per ragioni di segretezza… Perfino quella notte avevamo preferito il pavimento, perché il materasso della mia stanza avrebbe cigolato troppo. Ci eravamo coricati solo dopo che tutto era finito. Comunque, non avevo fatto il solletico a Philo in nessun caso: né al mulino abbandonato, quando lui aveva la camicia sbottonata, né in altre situazioni, quando ero riuscita a convincerlo a togliersela. Non amava mostrare il suo corpo, forse avrebbe voluto essere più robusto, come lo erano alcuni ragazzi della sua età… ma aveva imparato a infischiarsene. Ormai si spogliava molto più tranquillamente rispetto ai primi tempi. Non lo metteva a disagio restare mezzo nudo davanti a me, tanto meno lasciarsi accarezzare e stuzzicare dappertutto. Da dove saltava fuori la novità del solletico?

    Mentre Philo raccoglieva la camicia, guardai di nuovo la sua schiena scoperta. La prima volta che avevo visto le cicatrici ero rimasta un po’ impressionata: non tanto perché fossero brutte, erano solo due tagli rimarginati da anni… Piuttosto, mi ero fatta delle domande sulle cause, perché quelle ferite non avevano l’aria del risultato di una caduta, a meno che Philo non fosse scivolato all’indietro su dei vetri rotti o qualcosa di simile. Senza dubbio, però, erano molto vecchie.

    «Ce le ho da sempre» mi aveva spiegato lui in quell’occasione. «Devo aver avuto un incidente da piccolo e non me lo ricordo… ma non è che mi facciano male.»

    Siccome non potevano essere le cicatrici a dargli fastidio, come si spiegava la sua reazione quando mi ero avvicinata a lui? Sospettai che avesse avuto un incubo, magari sulla sua partenza… e che, non volendo dirmi la verità per una questione di vergogna, si fosse inventato la scusa del solletico.

    «Ehi, non ti vesti?» chiese Philo, che ormai era quasi pronto per andarsene. «Vuoi rimanere a letto, allora?»

    Mi diedi uno scossone. «No, arrivo.»

    Presto fui coperta a sufficienza. Abbracciai Philo prima che lui si arrampicasse sul davanzale vecchio e rozzo della mia finestra. Ci scambiammo un lungo bacio appassionato.

    «Verrò a salutarti, te lo prometto» mi disse. «Adesso devo proprio scappare.»

    «Stammi bene, Philo.»

    «Anche tu.»

    Aspettai che lui fosse sceso giù e gli feci ciao con la mano, non appena fu in strada. Sparì in un vicolo. Era a suo agio quando doveva arrampicarsi o calarsi da un’altura. Non gli veniva mai il pensiero di cadere? Pareva proprio di no.

    Era un ragazzo strano, in fondo. Sempre disponibile, sempre pronto a scusarsi quando credeva di aver sbagliato. Parlava poco, questo sì. Se non c’erano di mezzo i suoi libri, quasi bisognava estrargli le parole a forza! Però diceva le cose importanti, essenziali.

    Avrebbe potuto essere un buon marito.

    Scossi la testa, mettendo da parte quell’idea senza senso. Le nostre strade dovevano dividersi, non andava bene prendere in considerazione un’assurdità del genere… anche se già mi sentivo sola e lui era andato via da qualche minuto, non di più. Tornai a sedermi sul letto, triste e imbronciata.

    Qualche giorno dopo, Philo mantenne la sua promessa e passò a trovarmi. Lo baciai, lo riempii di abbracci, ma non ci fu altro. Lui non aveva molto tempo e io volevo darci un taglio. Le nostre scappatelle dovevano finire, non era giusto che continuassi a trattare Philo come il mio amante: ci piacevamo, ci stimavamo e tutto il resto, però non ci amavamo. Ognuno stava cercando una buona compagnia ed eravamo stati abbastanza fortunati da incontrarci, nient’altro. Inoltre, anche se lo avessi amato, non potevo aspettarmi lo stesso da lui. Altrimenti ero sicura che si sarebbe dichiarato e avrebbe avuto più difficoltà a lasciarmi. No, tra noi non c’era nulla di serio.

    L'addio fu lo stesso uno strazio. All’inizio cercai di fare conversazione, scherzando su quanto sarebbe cambiato Philo durante l’addestramento: avrebbe messo su i muscoli, rasato i capelli («Non ce li ho già abbastanza corti?» aveva esclamato lui a quel punto) e imparato un sacco di barzellette sporche dai suoi compagni. Avrebbe deciso di farsi chiamare Rycroft, per darsi un’aria d’importanza. Si sarebbe lasciato alle spalle la sua vita passata…

    Finii per mettermi a piangere e lui mi consolò con baci sulla testa, pacche leggere sulle spalle e rassicurazioni varie.

    «Dai, non essere tragica. Mica ho intenzione di diventare un’altra persona… e poi non sto andando in guerra. Che farai quando arriverà quel momento?» Philo sorrise e provò a sdrammatizzare.

    Tremai dalla testa ai piedi. «Giurami che starai attento» insistetti. «E se ti spaventi, se hai un incubo o un incidente… dillo a qualcuno. Non tenerti tutto dentro.»

    Lui aggrottò la fronte. «Perché dovrei avere incubi o incidenti?»

    «Io… io non lo so.» Pensavo all'infortunio di quand’era bambino, ma soprattutto al suo comportamento della settimana prima. Non volevo che fosse ansioso, agitato o intrappolato in qualche brutto sogno. Meritava soltanto cose belle.

    Philo mi prese il viso fra le mani. «Starò bene, vedrai.» Mi guardò dritto negli occhi. «Tornerò presto, non temere. Sano e salvo.»

    «Allora ci conto.»

    Era evidente che non ci sarebbero stati giuramenti o promesse, solo speranza. Forse era meglio così.

    «Buona fortuna, Lorraine.» Mi lasciò andare e mi baciò un’ultima volta sulla guancia.

    Sospirai, salutando tra me e me sia il mio amico che la mia spensieratezza di ragazza. «Buona fortuna a te, Philo» augurai.

    Edited by Elizabeth Swann - 7/7/2023, 21:02
     
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    Questo capitolo è un po’ più da bollino arancione (anche se potrebbe essere sufficiente il giallo… ma è meglio non rischiare X) ). Entra in scena un nuovo personaggio femminile, la quinta narratrice della storia; inoltre, vediamo di nuovo il protagonista a trent’anni, così come l’avevamo visto, seppure per poco, alla fine del quarto capitolo. Da questo momento in poi, comunque, la narrazione seguirà un ordine cronologico, quindi spero che la lettura scorra sempre di più senza “inciampi” :)
    Come al solito, vi rimando al glossario in basso per il significato dei termini che potrebbero disorientarvi. Buona lettura!


    Capitolo Sesto
    1EttRRm
    wMtJpju


    «È un faan-troigh» avevo detto a Mima Roosan. «Non si sa mai con loro.»

    In quel momento ero convinta delle mie parole. Avevo poca simpatia per gli umani di Burgue, per usare un eufemismo. Anche se non si erano dimostrati malvagi come quelli del Patto, dubitavo che volessero fare amicizia con noi fatati. Non ci consideravano loro pari, avevano sempre un’aria di superiorità quando ci vedevano – oppure un’espressione di disagio. Alleati sì, ma solo in caso di emergenza.

    Poi la mia prospettiva era cambiata. Forse esisteva qualcuno degno di fiducia fra i camminatori. Forse avevo trovato una brava persona su cui contare in caso di necessità e, in fin dei conti, non m’importava che non fosse un fatato.

    La cosa buffa era il modo in cui ci eravamo avvicinati. Un giorno gli stavo puntando il coltello alla gola e lui cercava di salvarsi la pelle, un altro giorno ero io stessa a salvargli la pelle, mentre lo assaliva un uomo-lupo. I due momenti erano stati intervallati da un paio di chiacchiere, ma niente di particolare. Lui mi aveva prestato il suo romanzo preferito, però conosceva a stento il mio nome!

    In generale, comunque, stavo bene in sua compagnia. Avrei voluto parlargli per un periodo più lungo: dopotutto, non capita spesso d’incontrare qualcuno interessato alla letteratura in una zona di guerra. Almeno avremmo potuto distrarci dai cattivi pensieri, che fiorivano in abbondanza nelle teste di chiunque, umano o fatato che fosse, infestando la nostra quotidianità come le peggiori erbacce infestano i giardini.

    Un’occasione si presentò quando ebbi terminato il libro preso in prestito. Raggiunsi il faan-troigh, che se ne stava solo soletto coi piedi penzoloni, seduto sopra un precipizio. Strano che fosse andato a piazzarsi proprio lì: non aveva paura dell’altezza? Una mossa falsa e sarebbe potuto scivolare, finendo per sfracellarsi. Mica aveva le ali come me!

    Mi salutò in tono cordiale. Non sembrava che lo preoccupasse la sua posizione pericolosa, perciò iniziammo quasi subito a parlare del libro. Ci animava lo stesso slancio: la trama piaceva molto a entrambi e ognuno capiva benissimo le emozioni dell’altro. Quasi ci rubavamo le parole di bocca a vicenda.

    Alla fine decisi che dovevo sdebitarmi con lui. Non solo mi aveva fatto conoscere una storia meravigliosa, ma aveva mantenuto la promessa di non raccontare a nessuno della biblioteca ed era sempre stato amichevole. Mi trattava con genuino rispetto, senza condiscendenza, senza cortesia forzata. Era come se fossimo sullo stesso piano, nonostante provenissimo da mondi differenti.

    Così gli permisi di visitare la biblioteca. Lo scortai nell’ingresso segreto e addirittura gli mostrai il prezioso volume che aveva adocchiato la prima volta, durante la sua incursione non autorizzata. Parlammo della somiglianza fra quell’antica vicenda e il suo libro, mentre sedevamo vicini, curiosi e affascinati, e io sfogliavo le pagine del manoscritto.

    «Adoro pensare che ci sia una connessione» gli confessai.

    «Perché?» chiese lui.

    «Mi piace l’idea che una storia come questa possa viaggiare per il mondo e in qualche modo ripercorrere il cammino secoli dopo, cambiata dal continuo raccontarla… ma familiare. Come se contenesse un messaggio» spiegai. Non avevo intenzione di aggiungere altro, anche se avrei potuto farlo. Fu lui a dar voce ai miei pensieri, quasi mi avesse letto nella mente, e disse: «Che magari noi… non siamo poi così diversi.»

    Lo fissai, però distolsi subito lo sguardo. Non riuscivo a credere che avesse appena espresso ciò che mi passava per la testa, ma soprattutto non riuscivo a credere di aver pensato certe cose! Per me gli umani erano sempre stati una specie poco interessante, senza contare che odiavo furiosamente gli stronzi del Patto. E ora eccomi qui, vicina a un faan-troigh e felice di esserlo, tanto in sintonia con lui che poco mancava parlassimo in sincrono! Per gli dèi, che mi stava succedendo?

    Lui aveva un’aria assorta, era perso in qualche meditazione personale. A un tratto mi resi conto di non averlo mai chiamato per nome, come se non meritasse abbastanza considerazione da parte mia. Forse mi giudicava un’altezzosa, chissà. Al suo posto l’avrei fatto. Eppure non volevo dargli quest’impressione di me.

    «Philo, giusto?»

    Si riscosse dalle sue misteriose riflessioni. «Scusa?»

    «È così che ti chiama la maggior parte dei tuoi simili. Viene dal tuo cognome, no?»

    Annuì.

    «Mi piace, è carino. Meglio che perdere tempo a snocciolare “sergente Philostrate”» commentai, sorridendo.

    Abbozzò un sorriso anche lui. «Sì, immagino. In realtà, comunque, sono Philo da molto prima di essere un sergente.»

    «Prima… quando?» domandai, incuriosita.

    «Dai tempi dell’orfanotrofio. Per il mio amico Darius – è qui, fa parte del mio stesso battaglione – sono sempre stato solo Philo.»

    «Sei cresciuto in un orfanotrofio? Non lo sapevo.»

    Lui si strinse nelle spalle. «Non te l’ho mai detto.»

    «Mi dispiace» mormorai con una stretta al cuore. «Anche i miei genitori sono morti, ma ero già grande. Tutta la mia famiglia è morta.»

    La sua espressione s’indurì. «Il Patto?»

    «Sì, ha fatto una strage.» Serrai i pugni. «Io non c’ero e quando sono tornata…» Digrignai i denti, le mie ali che si agitavano nervose.

    «È orribile. Non dovrebbero esistere individui tanto assetati di sangue e privi di scrupoli» disse Philo.

    «Sono dei mostri.» Il mio respiro era affannoso, avevo voglia di alzarmi e prendere a calci qualcosa. Mi capitava spesso quando rievocavo la tragedia: rabbia e dolore erano pressoché agli stessi livelli. Riuscii a mantenere il controllo e incrociai lo sguardo del mio nuovo amico. «Per fortuna non siete tutti così, voi umani» constatai, asciutta.

    Il suo sorriso sembrava stanco. «Già.»

    Scambiammo giusto qualche aneddoto sulla nostra vita passata, poi uscimmo dalla biblioteca. In piedi e immobili, l’uno accanto all’altra, fissammo il cielo che annunciava una nevicata imminente. Era ora che ci salutassimo.

    Stavo per alzarmi in volo e rivolgere un cenno a Philo, quando lui si schiarì la gola.

    «Vignette?» mi richiamò, posando una mano sul mio braccio.

    «Sì?»

    «Grazie. Per avermi mostrato il manoscritto e tutto il resto… La biblioteca è un posto davvero speciale.»

    «Sono felice che ti sia piaciuta.» Mi trovai a ripetere la stessa frase usata da lui a proposito del suo libro. «Mi raccomando, però.»

    «Continuerò a mantenere il segreto, sta’ tranquilla.»

    «Perfetto. Ci vediamo, allora.»

    «Arrivederci» si congedò Philo. Agitò una mano nella mia direzione non appena mi sollevai da terra.

    Restai pensierosa fino a sera. Continuavo a rievocare l’immagine del suo volto. Philo non era un tipo molto comunicativo e aveva la tendenza a nascondere le emozioni, magari anche a causa del suo addestramento da militare, ma avrei giurato che fosse toccato nell’intimo dal dramma della mia famiglia. Questa era l’ennesima prova che non mi considerava affatto uno scherzo della natura o un essere inferiore. La sua mentalità era diversa da quella di gran parte degli umani. Mi aveva ascoltata, attento e partecipe. Prima che ci separassimo, mentre mi ringraziava per averlo lasciato entrare nella biblioteca, il suo sguardo era stato insolitamente dolce – più intenso, in qualche modo. Come se volesse dirmi: “Mi dispiace tanto, per quello che vale ti sono vicino”. Se è vero che gli occhi sono lo specchio dell’anima, valeva a maggior ragione nel suo caso.

    Peraltro, gli occhi erano il suo tratto estetico migliore: color cacao, ben incassati sotto le sopracciglia scure, così diversi dai miei. A essere sincera, dovevo riconoscere che il suo viso aveva un ottimo aspetto, con quei lineamenti decisi e mascolini, il mento fermo, le labbra simmetriche, l’alta fronte che s’increspava spesso – particolare, questo, che avevo notato oggi. Non mi dispiacevano neppure i suoi capelli: se la maggioranza dei soldati li portava corti, a Philo arrivavano sotto la mandibola. Ondulati com’erano, facevano venir voglia di passarci le dita in mezzo per saggiarne la morbidezza.

    Se avessi descritto così un uomo alla mia amica più cara, ero certa che lei mi avrebbe presa in giro. “Sveglia, Vini! Sei cotta” sarebbe stata la sua prima osservazione. Dèi, quanto mi mancava. Le sue chiacchiere, la sua schiettezza, la sua allegria… Cosa non avrei dato perché lei fosse con me! Era un’ascoltatrice ideale e mi sarebbe piaciuto raccontarle della mia conoscenza con Philo. Purtroppo, ora come ora eravamo lontane. Sperai che fosse sana e salva, perché non avrei sopportato di perdere anche lei. Io me la sarei cavata: l’avevo sempre fatto, il rapporto con Philo non avrebbe potuto cambiarmi.

    A parole la situazione era lineare e semplice. Per qualche giorno mi convinsi di averla sotto controllo e ne fui sollevata: col casino in cui ci trovavamo tutti quanti, l’ultima delle mie necessità era interessarmi a qualcuno, men che meno a un faan-troigh! Ma fu un’illusione temporanea. Philo s’infilò pian piano nei miei pensieri, nelle mie fantasticherie, persino nei miei sogni. In ogni momento ero tentata di cercarlo per conversare con lui, non smettevo di provare a individuare la sua figura in mezzo agli altri soldati di Burgue, pregustavo un incontro in biblioteca, immaginavo la sua espressione mentre lo mettevo a parte di nuovi dettagli del mio passato… e più di una volta, durante la notte, avevo sognato di baciarlo, di sentire il sapore delle sue labbra e la stretta delle sue braccia attorno a me.

    Fu quindi naturale, quando ci rivedemmo per caso in una grotta dove lui pareva essersi nascosto, accettare che mi si avvicinasse. Il nostro bacio, desiderato da entrambi, ci unì per qualche istante. Le mie mani si spostarono sui suoi capelli e gettarono via il cappello, le sue si posarono sulla mia schiena. I nostri vestiti caddero giù, uno per uno. Ignorammo il freddo: era del contatto e del calore dei nostri corpi che avevamo bisogno, non di un clima tiepido.

    Non mi sentii per niente nervosa, anche se non avevo mai baciato un umano – figuriamoci andare oltre! Era strano toccare solo pelle e mai membrana alare, però non mi assalì mai la sensazione di essere nel posto sbagliato con la persona sbagliata. Mi sembrava di conoscere Philo da una vita ed ero del tutto a mio agio. Ci adattavamo bene l’uno all’altra, i nostri movimenti erano sicuri, il livello d’intimità molto elevato, al di là dell’atto in sé. Iniziai ad accorgermene mentre Philo mi accarezzava un’ala – e diventò più chiaro in un secondo momento, dopo che lui fu sotto di me.

    Mi era già capitato di provare un orgasmo simile in passato, solo che non mi aspettavo che la cosa di ripetesse in questa occasione. Intendiamoci, non avevo avuto tempo per rifletterci su, ma di fatto la sorpresa eguagliò quasi il piacere. Mi lasciai cadere su Philo, ansimante. I suoi sussulti, invece, furono meno bruschi e accentuati dei miei, come a volersi abbinare alla sua personalità poco estroversa, ai modi posati, ai toni pacati.

    Restammo così finché notai che lui tremava. «Hai freddo?» sussurrai contro il suo collo.

    «La roccia è gelata» disse piano.

    Era vero. Ne avvertivo il morso gelido sulla carne, ma ero comunque in una posizione comoda, visto che avevo avuto abbastanza fortuna da sdraiarmi quasi interamente su di lui. Pensai a quanto sarebbe stato confortevole stare insieme su un giaciglio morbido, al calduccio, con una bevanda corroborante a portata di mano…

    Molto più tardi, rimuginai su quanto era accaduto. Non aveva senso girarci intorno: mi ero innamorata di Philo. Chissà se lui mi ricambiava? A giudicare da come si era comportato, avrei detto di sì, però non potevo esserne sicura al cento per cento. Si preoccupava per me, stava volentieri in mia compagnia e mi si era concesso senza esitazione… Bastava per definirlo innamorato?

    Non l’avrei ammesso con tanta facilità, ma ero un po’ in crisi. Non essendo la prima volta che perdevo la testa per qualcuno, conoscevo già i pro e i contro della situazione. L’infatuazione – e anche l’amore – non è mai soltanto rose e fiori, anzi, a volte può essere un vero schifo. Il punto è che vivere senza amare è impossibile. Inoltre, se perfino la Regina Aradis aveva avuto una storia con un umano, non è che io fossi una vera eccezione. Perché non mi godevo il momento? Avevo un futuro davanti a me…

    Sbuffai. Un futuro davanti, come no. Chi volevo prendere in giro? La mia patria era assediata, la guerra contro il Patto diventava più spietata ogni istante che passava. Dovevo ringraziare di essere sopravvissuta: molti miei conterranei non erano stati così fortunati. Non c’era tempo per le frivolezze, piuttosto mi toccava stabilire le mie priorità.

    Ipotizzai di aver bisogno di qualche altro giorno per capire se anche Philo era una priorità. Dovevo osservare i suoi atteggiamenti e prestare attenzione alle sue parole, più di quanto avessi già fatto. Prima o poi avrei avuto una risposta.

    Fu difficile, perché preferivo di gran lunga rilassarmi abbracciata a lui, ascoltare la sua voce profonda e piacevole, coinvolgerlo in nuove conversazioni e amarlo con passione. Desideravo il suo corpo quanto la sua confidenza, la vista dei suoi sorrisi rari ma luminosi, la sua presenza al mio fianco. Forse era colpa del fatto che non m’innamoravo da un pezzo, forse avevo dimenticato che determinate sensazioni possono essere più ardenti del fuoco, bruciando al centro del petto e diffondendosi in tutti gli arti e i muscoli, fino alla punta delle ali… Il risultato era che mi sembrava di non aver mai amato così.

    Non si trattava di un sentimento radicato e rafforzato dagli anni, paragonabile a quello che mi aveva unita – e mi univa ancora, in un certo senso – a Tourmaline, o all’affetto che mi legava alla mia famiglia morta. No, al confronto era simile a un giovane albero in crescita, quindi più fragile e tenero, eppure mi avvolgeva come una seconda pelle e nutriva ogni mia emozione. Era una linfa che mi rendeva più viva ed energica che mai, rafforzava la mia voglia di lottare per la mia gente, per qualsiasi giusta causa… e per Philo. Ora sapevo che l’avrei aiutato in caso di necessità, confortato quando era abbattuto, accompagnato nei suoi giorni felici, perlomeno finché fossimo rimasti insieme. Non avrei permesso a niente e a nessuno di sciupare ciò che stavamo condividendo, perché ero sempre più convinta che lui provasse quel che provavo io. I suoi gesti e i suoi sguardi me lo confermavano.

    Poi, all’improvviso, arrivò Tourmaline. Con altre persone era sfuggita a un assalto del Patto, che aveva distrutto Kish. Ci stringemmo l’una all’altra, grate di essere riuscite a ritrovarci. Ero immensamente sollevata che lei stesse bene e la accompagnai subito a fare un bagno rilassante, per lavare via le fatiche del viaggio.

    Ascoltai il breve racconto dell’attacco, maledicendo i bastardi che stavano causando tanta distruzione. D’un tratto, a sorpresa, Tourmaline si disse pentita di ciò che era successo fra noi e insistette che le dispiaceva per com’era andata a finire. La rassicurai: non avrei mai smesso di fidarmi di lei – la mia migliore amica, la più cara. Avevo intuito che mi amava ancora, benché in passato fosse stata proprio sua l’iniziativa di troncare la nostra storia, perché c’era una ragazza più grande di me che le piaceva, ma non m’importava di quel vecchio dolore ormai svanito. Tourmaline voleva soltanto che fossi felice, anche se ciò significava vedermi stare al fianco di qualcun altro. Le parlai quindi di Philo.

    Dovetti precisare che era un brav’uomo, visto che la sua reazione fu colma di scetticismo. Non le piacevano gli umani di Burgue. Le mie repliche furono piccate, ma sapevo di essere l’ultima fata che potesse darle torto: io per prima avevo provato quella diffidenza. I suoi discorsi mi infastidirono e, al tempo stesso, dovetti accettare che non erano dettati da una banale gelosia, quanto da un solido buonsenso. Non stavo agendo con giudizio, se non altro perché c’era la guerra. Molte cose sarebbero potute cambiare dopo, eppure mi ero rifiutata di pensarci. Se Tourmaline si sbagliava sul conto di Philo, non aveva torto a farmi presente che porsi il problema del futuro era essenziale.

    Mi irritava l’idea che quella conversazione guastasse la sintonia fra me e Philo. Era inevitabile, purtroppo. Avevamo appuntamento in biblioteca, dove nessuno ci avrebbe disturbati, e sarebbe stato tutto perfetto se non avessi avuto la testa altrove. Di conseguenza il sesso non fu molto gratificante per me. Continuavo a interrogarmi su come sarebbe andata a finire questa storia d’amore tanto improbabile quanto travolgente. Anziché spiegarsi fino alla massima apertura e illuminarsi, le mie ali rimasero in condizioni normali, sollevate ma un po’ flosce. L’orgasmo fu fugace, insoddisfacente, nonostante fossi consapevole del completo abbandono di Philo tra le mie braccia. Non potevo restare insensibile alle sue reazioni, però non riuscivo nemmeno a lasciarmi trasportare come le altre volte.

    Pensavo che lui non si fosse accorto di nulla, invece aveva notato la differenza. Me lo disse. Oltre a essere un osservatore attento, aveva un carattere premuroso sotto quella facciata da soldato stoico e imperturbabile. Avrei dovuto immaginare che il dettaglio delle ali non luccicanti non gli sarebbe sfuggito. Ad ogni modo, essendo preda dei dubbi sul nostro avvenire, buttai lì una giustificazione affrettata, una risposta alla quale un tempo avrei creduto senza esitazione:

    «Di solito non succede con i faan-troigh.»

    Erano parecchi giorni che non mi rivolgevo a Philo in quella maniera. Lui non parve offendersi, anzi, mi domandò se stessi bene. Compresi che era ora di mettere in chiaro l’intera faccenda: mi piacevano le belle parole, a mio modo ero persino una romantica, ma esistono casi in cui nascondersi dietro un’ala o perdersi in convenevoli è inutile e controproducente. Bisogna andare dritti al punto, anche se può far male. Tanti saluti alla finezza.

    «Che cosa ne sarà di noi dopo la guerra?» incalzai.

    «Non lo so» ammise Philo, esitante. L’avevo colto alla sprovvista. «Non ci ho… ancora pensato.»

    «Certo» replicai. Suonò molto simile a: “Che mi aspettavo? Avrei dovuto saperlo.”

    «Vignette…» iniziò lui. Lo interruppi, brusca: «Io cosa sono per te, Philo?»

    «Che diavolo ti pren…» cercò di protestare, ma di nuovo non lo lasciai finire.

    «Perché, se sono solo una scopata esotica, allora…» attaccai.

    «No.» Fu lui a interrompermi, mentre mi afferrava un polso. «Come fai a dire questo? Tu…» Era ferito dalla mia insinuazione, mi guardava e sembrava faticare a riconoscermi, le sopracciglia inarcate, gli occhi stretti. «Con te mi sento a casa» dichiarò infine.

    Era un modo insolito di definire la nostra relazione. Mi chiesi che spiegazione ci fosse dietro la scelta di quei vocaboli.

    Lui mollò il mio polso, in silenzio. Mi voltò la schiena. La luce delle torce gettò riflessi dorati sul contorno della sua figura seminuda. In un’altra occasione mi sarei soffermata a lungo a guardarlo: aveva una bella struttura fisica, armoniosa, con muscoli sviluppati e forti, tant’è che adoravo accarezzarli, specie quelli del petto e delle spalle. Mi davano una sensazione di solidità e sicurezza, oltre a rendere lui molto virile e affascinante. La sua carnagione era più chiara di quella di Tourmaline, ma un po’ più scura della mia, priva di macchie, voglie o lentiggini, con solo due cicatrici risalenti all’infanzia, nella zona dove alle fate spuntano le ali e gli umani hanno una distesa di pelle liscia. Era un uomo attraente, senza dubbio. Eppure non era il momento di pensare a questo. Intuivo che lui stava tentando di confidarsi, nonostante il suo atteggiamento fosse diventato schivo.

    «Ho perso una parte di me molto tempo fa» esordì. Si rifiutava di guardarmi in faccia. «Volevo dimenticare. Volevo ignorarlo, ma non ci sono riuscito.» Una brevissima pausa. «C’è un soldato, qui… che ha perso una gamba.»

    «Ivòs?» esclamai. Ero confusa: perché quel repentino cambio di argomento? Dove aveva intenzione di andare a parare Philo?

    «Ivòs» ripeté lui. «Ha detto che a volte la sente, per quanto assurdo possa sembrare.» Continuava a darmi le spalle, a testa china, leggermente curvo. Non era per non guardarmi negli occhi, realizzai. Era perché avessi una buona visuale della sua schiena. «Ma non sembra assurdo» proseguì, mentre la mia confusione cominciava a diradarsi. «Non a me.»

    Fissavo le sue cicatrici, non riuscivo a distogliere lo sguardo. Erano identiche e speculari, poste da un lato e dall’altro della colonna vertebrale. Osservandole veniva spontaneo chiedersi cosa le avesse causate. Davvero poteva trattarsi del risultato di un incidente? E se fossero state inferte di proposito?

    “Non può essere” pensai, agghiacciata. Ciononostante, la realtà mi appariva fin troppo netta. Due ferite del genere nel punto esatto in cui le fate hanno le ali…

    Allungai le mani per appoggiarle sulla parte alta della schiena di Philo. Stavo tremando, scossa dall’orrore di quella rivelazione improvvisa. Lui si agitò quando lo toccai, però non si ritrasse. Le mie dita scivolarono più in basso, verso la base delle cicatrici. Ancora una volta Philo si mosse senza respingermi; il suo silenzio e i suoi lievi movimenti parlarono meglio di qualsiasi ammissione diretta. Per un attimo immaginai di percepire il contatto con una membrana, laddove le ferite erano incise nella carne…

    «Le tue cicatrici…» bisbigliai. Spostai le mani in direzione della sua gabbia toracica, per allontanarle da quei tagli crudeli.

    «Sarà successo quando ero piccolo, non me lo ricordo… ma so che cosa mi è stato tolto.»

    Sollevai i palmi, intanto che lui parlava, indecisa se provare a tenerlo fermo per le spalle e poi avvicinarlo di più a me. «Perché riesci ancora a sentirle?» mi sforzai di articolare, sopraffatta e sconvolta.

    «Le sento sempre. Le sento da tutta la vita.»

    La sua voce fonda e roca, solitamente calma e misurata, si era incrinata. Il dolore, la tristezza e la perdita erano quasi palpabili. Non avevo mai visto Philo così vulnerabile.

    «Sei per metà fatato» conclusi. Gli sfiorai il centro della schiena. Chi era stato a fargli del male? Chi si era permesso di mutilarlo, per di più quando era solo un bambino? I suoi genitori, forse? La rabbia si mescolò alla pietà e mi pulsò nelle vene. Quale mostro avrebbe potuto commettere quella barbarie a danno del proprio figlio?

    Philo si raddrizzò e si preparò a rivestirsi. «Immagino cosa penserai di una vita passata a celare le parti di me che sono come le tue…»

    «Basta» dissi, in tono dolce ma fermo, mentre lo abbracciavo da dietro. Credeva che la sua natura – o peggio, la sua mancanza di ali – mi disgustasse? Credeva che lo avrei respinto? Oppure, essendo comunque umano per metà, era risentito perché prima gli avevo sbattuto in faccia che una fata non può ricevere abbastanza soddisfazione da un faan-troigh, quindi è sottinteso che non riuscirà a star bene assieme a lui? «Non sei stato tu a farlo» aggiunsi, abbassando lo sguardo per un istante. «Te l’ha fatto qualcun altro.» Gli accarezzai i capelli vicino all’orecchio, in un gesto di conforto.

    Fu allora che capii quanto davvero lo amassi. La sua sofferenza era la mia, la avvertivo sulla pelle e mi scuoteva l’anima, come una raffica di vento molto violenta può scuotere le ali delle fate. La sua solitudine mi penetrava dentro, fino alle ossa. Avevo il cuore gonfio di tenerezza e compassione. Desideravo proteggere Philo, stargli vicina a qualsiasi costo, alleviare le sue pene e vederlo sorridere di nuovo.

    Lui mi spiegò che i mezzosangue a Burgue non erano nessuno, non contavano nulla, né tra gli umani né tra i fatati. Era evidente che non aveva mai considerato quel posto la sua casa, malgrado ci fosse cresciuto. Con me, in mezzo alle montagne di Tirnanoc, era tutto diverso.

    Se non mi avesse amata, se non si fosse fidato, quella verità non sarebbe uscita dalle sue labbra per nessuna ragione: il segreto avrebbe continuato a rimanere rinchiuso negli abissi della sua anima, tormentandolo, levandogli il sonno, isolandolo dal resto del mondo, anche se lui fingeva di star bene e certo non si lamentava della sua vita. Aprirsi con me era stato un rischio, una mossa azzardata. Giurai a me stessa che mai, mai l’avrei fatto pentire della sua sincerità, ricambiando ogni goccia di fiducia e di amore che mi aveva dimostrato.

    ~*~*~*~

    Glossario

    Faan-troigh: termine scherzoso/non offensivo per indicare gli umani; si legge come si scrive, con l’h finale aspirata.

    Mima: termine che indica una sorta di sacerdotessa della religione delle fate.

    Camminatore: termine dispregiativo usato da alcune fate per riferirsi agli umani.

    La Regina Aradis: una regina delle fate vissuta molti secoli prima. Il nome si legge come si scrive, l’accento cade sulla prima a.

    Kish: sh si pronuncia sc, come nella parola inglese “shopping”. Nella serie non viene specificato, ma probabilmente Kish è una delle città di Tirnanoc (vedi voce successiva).

    Tirnanoc: il continente dove vivono le fate. Il nome si legge come si scrive e l’accento cade sulla i.



    Edited by Elizabeth Swann - 18/7/2023, 18:35
     
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    Letto il secondo capitolo!!! Mi è piaciuto, forse mi sono ritrovata di più nel suo personaggio che quello della madre... Però non mi è chiara una cosa, dato che non ho visto la serie, Afissa dice di appartenere alla famiglia dei faiuni e poi parla dei fatati come se ne facesse parte anche lei... Dato che non ho visto la serie mi è sorto un dubbio, perché per me i fauni sono come il Signor Tummus di Narnia (sempre se si scrive così)... quindi, qui per caso i fauni sono un altro nome dei fatati oppure l'hai messa in mezzo come per dire che è rivolto anche ai fauni il disprezzo degli umani?

    CITAZIONE
    La fata doveva essersi illusa che l’umano con cui aveva avuto una relazione le desse amore, magari accettando la prospettiva sposarsi e vivere insieme. Che ingenua! Un’idea simile era completamente fuori dalla realtà. Cosa credeva, che la sua voce canterina potesse fare miracoli? È proprio vero che l’amore acceca…

    Questo! Questo è tipicamente un mio pensiero! Avrei pensato alla stessa identica cosa :XD:

    CITAZIONE
    Era come se fosse solo al mondo: nessuno l’avrebbe accudito con amore, nessuno avrebbe badato alle sue necessità ed esigenze. E quelle alucce tristi sulla sua schiena…

    Mi è piaciuto tanto qui... si percepisce proprio il dispiacere di Afissa...

    CITAZIONE
    Qual era la sua colpa, fra l’altro? Non aveva mica scelto di essere messo al mondo! Nessuno di noi ha il potere di farla, quella scelta. Che senso ha, dunque, accanirsi contro il figlio di una fata soltanto perché è figlio di una fata? Come se potesse cambiare la sua condizione e decidere di nascere in una famiglia diversa, da un’altra madre…

    Anche questo un mio altro pensiero :XD: è il solito ragionamento che faccio quando mi metto a pensare a certe cose o anche a me stessa quando capita che i miei dicono cavolate senza senso, io solitamente gli dico "Eh, mica te l'ho chiesto io di farmi nascere."

    Comunque capitolo piacevole! Presto recupero gli altri!
     
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    Rue Ryuzaki grazie mille per essere passata <3 Sono contenta che sei riuscita a immedesimarti in Afissa (anche se ammetto che non me l'aspettavo X) Ma meglio così!).
    Per quanto riguarda il tuo dubbio, ti spiego subito: i fauni hanno proprio corna e zoccoli, come insegna la mitologia. Semplicemente, il termine "fatati" ha valore onnicomprensivo e indica tutte le creature non umane (quindi non soltanto le fate). Se dai un'occhiata alla breve nota introduttiva prima del prologo, vedrai che là è spiegato :)

    Per il resto, sono molto curiosa di sapere come troverai il seguito della storia :D Afissa, lo avrai notato, è concreta e realista; così è anche la narratrice del prossimo capitolo, che però parte da un punto di vista differente. Non anticipo altro, comunque, e mi auguro di vederti commentare presto ;)
     
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    Capitolo Settimo
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    A Vignette avevo raccomandato di tenere d’occhio l’umano, poiché non avrebbe mai dovuto scoprire i segreti del popolo fatato: la mia gente doveva difendersi dall’ottusità, dalla rozzezza e dalla violenza dei camminatori. La Repubblica di Burgue era dalla nostra parte per supportarci militarmente contro il Patto, ma non condivideva con noi lunghi secoli di cultura, riti e tradizioni; anzi, guardava le nostre usanze con lo stesso sospetto dei nostri nemici.

    Se soltanto gli umani si fossero soffermati a riflettere, a mirare, ad ascoltare, meno spargimenti di sangue avrebbero avuto luogo. Purtroppo, pareva che non fosse nella loro natura tendere mano e cuore verso chi aveva attitudini differenti. Voglia di conquista e di dominio ne ottenebravano l’animo, impedendo il dialogo, limitando l’empatia. Nessuno di loro si sforzava anche solo di provare a comprendere i misteri del nostro credo, il legame viscerale che ci univa al mondo naturale e ai suoi ritmi, la letizia che i piccoli gesti della quotidianità risvegliavano nei nostri spiriti liberi e gioiosi.

    In guerra, tuttavia, noi stessi rischiavamo di perdere il contatto con le nostre radici. L’esistenza dei fatati era in pericolo: il conflitto recava con sé morte e distruzione perpetua, con qualche pausa sporadica lungo la strada, insufficiente a un vero risanamento. Ciononostante, nessuno di noi si sarebbe arreso senza combattere, senza tentare di difendere Anoun sino all’ultimo battito vitale.

    Non temevo i militari di Burgue ed ero disposta a offrir loro il mio ausilio, se fosse stato necessario. Altrettanto mi aspettavo da Vignette e dalle altre persone fidate che mi circondavano. Al contempo, tenevo sempre presente quella linea, invisibile ma invalicabile, che ci separava dagli alleati umani. Fui dunque sollevata, persino compiaciuta, quando mi accertai che Vignette sorvegliava con grande attenzione l’intruso che aveva osato penetrare nella sacra biblioteca.

    I problemi cominciarono allorché la mia prediletta prese confidenza con quell’umano. All’inizio non notai nulla, poi mi accorsi che, nei suoi momenti liberi, era impegnata a leggere un volumetto dall’aria alquanto vissuta. Non mi occorse molto tempo per scoprire che si trattava di un prestito fattole da lui, se non addirittura un regalo. L’idea che Vignette avesse ricevuto un dono da qualcuno che non era un fatato, per di più di sesso maschile, mi inquietò: conoscevo parte delle dinamiche che governavano le relazioni degli umani, ero conscia che esse si basavano su un fondamentale squilibrio a danno delle donne e a vantaggio degli uomini. Cosa credeva di ottenere quel camminatore? Stava forse tentando d’ingraziarsi una bella fata allo scopo di attirarla nel suo letto?

    Pensai di intervenire per mettere in guardia Vignette, ma compresi che non mi avrebbe prestato orecchio. Era focosa come le fiamme che divampano nei bracieri, più cocciuta di un mulo, determinata a procedere per la sua via, sempre. No, vi erano poche speranze che accogliesse i miei avvertimenti. Al contrario: se le avessi chiesto di allontanarsi dall’umano, avrebbe fatto l’esatto opposto. Non mi restava che avere fiducia in lei e sperare che riuscisse a mantenere il senno.

    Passarono i giorni. Le difficoltà dei soldati di Burgue erano palesi, la minaccia mortifera dei nemici incombeva su noi tutti, pari a una sentenza di decapitazione. L’ansia e la tensione crescevano, simili a esalazioni nauseabonde che si spargevano nell’aria gelida e tersa dell’inverno tirnanese. Vedevo l’irrequietezza della maggioranza dei fatati, i loro volti seri ed emaciati, che mai un sorriso aperto rischiarava. La catastrofe era prossima.

    Tenni Vignette sotto osservazione costante. Era preoccupata al pari degli altri, ma un pomeriggio la scorsi intenta ad affilare il suo coltello con un’insolita espressione: persa, lontana, quasi sognante. Le illuminava il viso fresco e pulito, facendo risplendere di un morbido bagliore i suoi tratti ben disegnati, addolcendone i pochi spigoli, tirando verso l’alto gli angoli delle labbra. Le giovani mani esperte, abitualmente leste e decise, si muovevano con più lentezza, come a volersi soffermare su ogni singolo moto compiuto dalle dita. Vignette era immersa nel suo mondo interiore, si lasciava trasportare da qualche tenero ricordo, come una foglia in balìa della brezza più gentile. Non dubitai nemmeno per un istante che il centro delle sue memorie e l’oggetto dei suoi pensieri fosse qualcuno che lei amava… ma chi? Possibile che si trattasse di quell’umano?

    Il mio cuore fu travolto da un oscuro presagio, sentii un peso funesto piombarmi addosso e mi si seccò la bocca. No, Vignette non era caduta in quella rete! Non poteva essersi innamorata di un camminatore, nessuna fata dovrebbe: la Regina Aradis in persona era stata abbandonata dal suo amante, per poi scoprirsi gravida di un figlio mezzosangue!

    Eppure sapevo che la mia prediletta avrebbe potuto invaghirsi di quel soldato di Burgue… o addirittura amarlo. Malgrado la scorza dura del suo carattere indomito, era una ragazza dai sentimenti puri e disinteressati, con un’insospettabile dose di innocenza e candore, sebbene la perdita dei suoi famigliari l’avesse segnata moltissimo, forzandola a maturare in fretta. I suoi palpiti e i suoi desideri erano vibranti di vita. Ancora non le era capitato di difendersi contro le pugnalate degli innamorati bugiardi.

    Non volevo che vivesse quel tipo di esperienza. Invocai su di lei la protezione degli dèi, nella speranza che le risparmiassero le angustie dell’abbandono. Quanto all’umano, mi trovai a seguire le sue mosse, in attesa che commettesse qualche passo falso. Forse, se avesse detto o fatto qualcosa che a Vignette non sarebbe piaciuto, lei avrebbe finito con l’allontanarsi da lui… ma non accadde nulla del genere.

    La mia sola consolazione, per quanto scarna, fu la loro discrezione. Erano entrambi cauti e colmi di riserbo quando si trattava del loro rapporto: in pubblico non si tradivano mai, a malapena scambiavano un paio di sguardi. Nessuno dei due era così cieco da illudersi che il loro legame fosse nato sotto una buona stella. Se soltanto avessero avuto abbastanza buonsenso da dividersi…

    Spesso mi interrogavo sulle possibili cause della loro unione. Se Vignette era una ragazza intelligente e affascinante, che poteva destare con facilità l’attenzione altrui, non riuscivo a capacitarmi delle doti attrattive dell’umano. Qualcuna doveva pur possederla, avendo stuzzicato così in fretta l’interesse di lei. Dal canto mio lo giudicavo d’aspetto anonimo e insignificante, sebbene non sgradevole; l’unica differenza che avevo notato coi suoi compagni era che lui stava più zitto. Meno parole inutili e scurrili uscivano dalla sua bocca, meno sguardi scettici o critici comparivano sul suo viso. Maggiormente contemplativo rispetto a molti suoi simili, studiava il paesaggio tirnanese quasi con curiosità, come se vi fosse un lato di lui avido di esplorare e di conoscere. Non escludevo che questo lato esistesse, in effetti, poiché non avevo prove che i cuori degli umani fossero tutti aridi sin nel profondo. Ciononostante, dubitavo che lui potesse vivere con Vignette una storia d’amore duratura. Un giorno le avrebbe voltato le spalle per fare ritorno a Burgue e si sarebbe dimenticato di lei, noncurante del malessere, della collera e dell’afflizione generati dal suo atto.

    Promisi a me stessa che avrei aiutato Vignette a superare quell’ostacolo. Non sarebbe rimasta nella desolazione: non lo meritava. A meno che il Patto non sterminasse tutti quanti, mi sarei adoperata per darle il conforto necessario. Mi ingiunsi di credere che avrebbe finito col dimenticare anche lei l’umano, una volta avvenuta la separazione, e che il tempo fosse in grado di sanare ogni ferita.

    Non ero preparata agli sconvolgimenti del futuro imminente, benché pensassi di esserlo.

    Quando il Patto invase la capitale, costringendo soldati di Burgue e fatati a evacuare l’intera zona del mimastero, presi da parte Vignette: era suo compito chiudere la biblioteca. Lei si precipitò a eseguire l’ordine e, un attimo dopo, notai l’umano dileguarsi nella medesima direzione. Meditava di seguirla, non vi erano dubbi. Pessimo segno. Fui tentata di raggiungere entrambi, ma non potevo permettermelo. Dovevo occuparmi della mia gente.

    Cercai di placare il panico crescente, intanto che aiutavo altre fate a radunare oggetti e viveri indispensabili alla sopravvivenza. Avevo i nervi a fior di pelle e la fronte madida di sudore sotto la fascia del copricapo, a dispetto del clima pungente. Temevo per l’incolumità del mio popolo: chi avrebbe avuto la fortuna di sfuggire alla scia di odio letale seminata dalle milizie del Patto?

    L’umano ricomparve, annunciando trafelato l’arrivo dei dirigibili nemici. Gli allarmi suonarono. Nel giro di qualche istante, ebbe inizio il bombardamento. La terra tremò. Urla terrorizzate si levarono tutt’attorno, seguite da boati assordanti. Presto l’ambiente fu saturo di polvere e macerie, l’aria divenne greve e irrespirabile. Figure accasciate e coperte di sangue, o piegate in due da violenti attacchi di tosse, riempirono la mia visuale.

    In quello scenario di perdita e devastazione, si accostò a me l’ultima persona che avrei immaginato mi cercasse in un tale frangente.

    «Mima Roosan» disse l’amante di Vignette, posando una mano sulla mia spalla, «dovete fare una cosa per me.»

    L’idea non mi allettava, eppure mi disposi all’ascolto. «Di che si tratta?» domandai.

    «So che Vignette vi rispetta molto. A voi crederà. Vi prego, ditele che mi avete visto morire durante l’attacco.»

    Spalancai gli occhi. «Che follia è questa?»

    «Vi prego» ripeté lui. Nel suo sguardo si leggeva l’agitazione, nonostante gli sforzi di dissimularla. «Non voglio che accada l’irreparabile. Sarà meglio se lei si convincerà che sono morto, così potrà andare avanti per la sua strada… e sopravvivere.»

    Respirava male, parlava in fretta, concitato e affannato. Sul lato destro del suo viso si apriva uno squarcio sanguinante, la pelle imbrattata era pallida sotto le macchie rosso vermiglio. Valutai rapidamente i pro e i contro della situazione: Vignette avrebbe patito il lutto e insieme la fine della loro storia, però si sarebbe liberata dall’influenza di un amore tanto effimero quanto messaggero di sventure. Fatto più importante, avrebbe avuto salva la vita. Con la grazia degli dèi, vi era la possibilità che le toccasse un destino benevolo. Se, al contrario, si fosse intestardita a preservare il suo legame con il camminatore, sarebbe stato più probabile che corresse dei rischi e andasse incontro a una sorte infausta.

    Guardando il mio interlocutore, mi aggiustai il copricapo e annuii. «Va bene. Dirò a Vignette che non vi è stato modo di impedire la tragedia.»

    «Grazie» rispose lui. «Questo gesto significa molto per me.»

    Avrei voluto chiedergli cosa significasse Vignette, invece. Avrei voluto sapere se lo unisse a lei un autentico trasporto, o se ogni suo gesto fosse sempre stato guidato dalla lussuria. Non vi era il tempo necessario, purtroppo, per affrontare un discorso così complesso. Inoltre, poiché lui era disposto a mentirle per separarsi da lei, mi appariva manifesto il suo mancato desiderio di lottare per il loro amore. No, qualsiasi legame sentisse di avere con Vignette, non era e non sarebbe mai stato abbastanza saldo da fargli sfidare la realtà. Il camminatore non osava nemmeno provare: preferiva causarle il trauma del distacco e scomparire nel nulla. Del resto, Burgue si stava ritirando dalla guerra: in quale futuro avrebbero potuto sperare una fata e un umano? Non ne avevano alcuno in condizioni normali, figurarsi in un caso simile. Mi limitai dunque a un secondo cenno d’assenso e non pretesi spiegazioni… soltanto una piccola prova falsa, utile a sostenere la nostra funerea messinscena.

    Avevo già del sangue sul palmo destro. Fresco, versato dal mio popolo, che il Patto, nella sua ferocia, non esitava mai a colpire. Sarebbe bastato aggiungerne una leggera quantità. Presi fra le mani il volto dell’amante di Vignette e lui fece una smorfia di dolore. Gli impedii di ritrarsi, rafforzando la stretta. «Per lei ti avrò visto morire a un passo da me» decretai, le pupille fisse sulle sue. «Avrai esalato l’ultimo respiro mentre ti tenevo.»

    «D’accordo» acconsentì, a voce così bassa che stentai a udirlo nel caos di scoppi, rumori e strilli intorno a noi.

    Gli mostrai il mio palmo sinistro lordato di sangue. «Questa sarà la dimostrazione che offrirò. Tu va’, torna dai tuoi simili.»

    Esitò un momento, poi indietreggiò. La parte più dura spettava a me, ormai.

    Quando, insieme con la mia aiutante Nefrie, raggiunsi Vignette, lei si trovava nel Giardino delle Rocce, da sola e in attesa dell’umano. Mi avvicinai e le parlai all’orecchio, per raccontarle la pietosa bugia sulla sua fine. Il viso le diventò subito terreo. Le cedettero le ginocchia, tanto che dovetti affrettarmi a sorreggerla. Mi chinai, stringendola al petto, ma lei si appoggiò a me per qualche istante soltanto e cominciò a divincolarsi. Si tirò su incespicando, forse per tentare di spiccare il volo e raggiungere il luogo dell’assalto, le ali che si muovevano in maniera scoordinata. Nefrie riuscì a fermarla e io le diedi manforte: agguantai Vignette per un braccio, frastornata dal suo grido lacerante che s’infranse sulle pietre circostanti.

    Vignette si dimenò come un ramo frustato dal vento. L’angoscia la divorava da capo a piedi, dirompente e totalizzante: una serie di singulti fuoriusciva dalla sua gola, lacrime simili a pioggia le rigavano le guance. Le afferrai il viso, nello stesso modo in cui avevo afferrato quello del suo amante, per calmarla e farla voltare verso di me. Guardandola cercai di trasmetterle la forza sufficiente per riacquistare la lucidità: se avevo accettato di prestarmi alla farsa, era stato per condurre la mia prediletta verso la salvezza, non verso la morte o la pazzia!

    Nefrie e io la trascinammo via con noi, alla ricerca di un posto adatto per rifugiarci. Mentre riflettevo su quale luogo fosse più sicuro, non riuscii a evitare di ripensare al volto turbato del camminatore. Mi chiesi quale sarebbe stata la sua reazione, se avesse visto Vignette così prostrata dalla notizia della sua dipartita. I miei peggiori timori erano confermati: lei lo amava davvero, con tutta sé stessa, e lui non avrebbe potuto reggere in alcun modo la grandezza di quel sentimento. Era troppo debole, troppo diverso da Vignette, troppo… umano. Meglio che rimanesse lontano da lei.

    Fu così che, in quel terribile giorno di sangue e morte, fui testimone – e in parte anche causa – della dissoluzione di un amore, di cui si preservò soltanto una tetra eco, nei gemiti lamentosi e nei singhiozzi strazianti di Vignette.

    ~*~*~*~

    Glossario

    Anoun: uno dei regni delle fate situati nel continente di Tirnanoc (vedi glossario del capitolo precedente). Sul dittongo ou, che si legge u, cade l’accento.

    Mimastero: luogo sacro delle fate, è sotto la custodia di una Mima (vedi glossario del capitolo precedente).



    Edited by Elizabeth Swann - 8/7/2023, 18:22
     
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    Il terzo capitolo per ora è il mio preferito!
    La vecchietta mi sta simpatica e mi ci ritrovo ancora di più rispetto ad Afissa!
    Quando parla con Morange mi sembra di vedere delle conversazioni tra me e me 🤣

    E che dire di Morange? Credo che per ora sia il mio personaggio preferito in assoluto! È proprio un brav'uomo e mi piace!

    Ho letto anche il quarto capitolo! Mi sono ricordata di alcuni passaggi che mi avevi fatto leggere perché non eri sicura... mi ricordo che ti avevo detto che la descrizione di Philo fosse un po' troppo... da "si vede che ti piace" 🤣

    Però leggendo tutto il contesto e i capitoli precedenti posso ritirare quello che ho detto. Si vede proprio l'amore della madre... è molto commovente il rapporto/l'amore verso Philo.
    Mi fa quasi pensare che... ciò potrebbe portarla alla distruzione e quindi a farla diventare il cattivo della serie (ipotesi da chi non segue e non sa)

    Diciamo che la storia in sé è carina! Piacevole da leggere e può essere letta da tutti, anche se non si conosce il mondo in cui si svolge la storia... da quella giusta nota di curiosità che fa quasi venire voglia di sapere di più!

    Ah! Potresti mettere il link della storia si Philo quando scopre le sue origini nel terzo capitolo!
     
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54 replies since 3/8/2022, 16:52   736 views
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